Senso dello Stato, senso del dovere, rispetto delle regole e soprattutto onestà: sono questi i valori a cui dovrebbe fare riferimento una classe dirigente. Invece oggi, da parte di alcuni (il cui numero sembra purtroppo destinato a crescere), questi sembrano valori dimenticati, anzi è sempre più difficile fare professione di tali valori senza essere sbeffeggiati. Ci voleva una grande dose di utopia per illudersi che sarebbe bastata una riforma elettorale per colmare il vuoto di una coscienza civile, monopolio di una minoranza di italiani, per di più emarginati. E così oggi andiamo ancora alla ricerca di una classe dirigente sia per il governo dello Stato e delle città, sia per la guida della società civile.
Come si spiega questo vuoto? Certamente con la “desertificazione culturale”, come sostiene, su “Repubblica”, Eugenio Scalfari: “Se la classe dirigente in un determinato periodo risulta insufficiente e impari al suo compito vuol dire che la società si è culturalmente impoverita”. Ma anche per la rinuncia degli onesti (una minoranza) a combattere, restando voci isolate nel silenzio, per timore degli sberleffi dei furbi che hanno fatto prevalere l’idea che “l’onestà è una virtù degli uomini da poco”, come dice all’avv. Ambrosoli la più stretta collaboratrice di Michele Sindona nel bel film “Un eroe borghese”.
Occorre essere “eroi borghesi” per non rinunciare ai valori fondamentali di una società civile e a difendere la verità, andando sicuramente incontro all’isolamento e a una feroce sconfitta? A questo pensavamo guardandoci intorno, leggendo i manifesti (sempre più numerosi, sempre più idioti), assistendo alle sterili polemiche di chi urla più forte per dimostrare di esistere, altrimenti nessuno si accorgerebbe di lui; assistendo all’involuzione di una politica che vede sulla scena alcuni mediocri personaggi senza idee, né morale, col contorno strombazzante di supponenti grilli parlanti (“ne ultra crepidam sutor”, avevano ragione i latini) maestri di verità o alla ricerca dello scandalo a tutti i costi per mania di protagonismo o forse per dare un senso ad un’esistenza altrimenti vuota. Demolire, anziché costruire: sembra questo l’imperativo categorico prevalente. Di fronte a tale situazione la tentazione più forte è quella di lasciar perdere, di non mischiarsi al vocio confuso di chi non sa ascoltare gli altri, chi non conosce la tolleranza, di chi si considera depositario della verità, di questa “libido loquendi” senza senso. E questo non per presunzione: solo per un fatto di igiene o decenza.
Ma non per essere a tutti i costi “eroi borghesi”, bensì cittadini che intendono svolgere fino in fondo il proprio ruolo e, soprattutto per tentare di lasciare ai nostri figli, “questo mondo un po’ migliore di quanto non l’abbiamo trovato”, come ci ha insegnato Baden-Powell, continueremo a lottare, per il rispetto di noi stessi, anche col rischio della sconfitta. Enzo Biagi ha scritto (“La disfatta”) di aver passato la vita a far sapere a certa gente che non gli piaceva: noi nel nostro piccolo, abbiamo cercato e cerchiamo tuttora di fare altrettanto. Ecco perché in questo numero, dopo aver parlato dei “falsi invalidi”, torniamo a raccontare la brutta vicenda dei loculi del cimitero, a cui si aggiunge la storia delle lampade votive (per mancanza di spazio rimandiamo al prossimo numero i dati desunti dalla relazione della commissione e un’indagine più accurata sulla situazione dell’ossario, praticamente esaurito); della soppressione di alcuni reparti dell’ospedale (e qui torna il discorso della mancanza di una valida classe dirigente, quando ci si trova a leggere manifesti del Cdu che pur di trovare un colpevole spara sull’amministrazione, “piove, governo ladro”, senza accorgersi che il responsabile dei tagli è il suo rappresentante alla Regione, l’assessore alla Sanità, Saccomanno). Ma parliamo anche delle cose positive, continuando nel nostro obiettivo di far emergere e incoraggiare la realtà economica locale (dalle iniziative private come “Tecnoquality” e “Dai”, a quelle pubbliche: l’approvazione del Pip, la nuova zona artigianale, fino ai problemi del commercio minacciato dall’usura e della pesca osteggiata dalla Ue).
“La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società, è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”, diceva Corrado Alvaro. Noi crediamo ancora nell’onestà e nella possibilità che questo valore possa crescere nella società.
Quindici - 15.7.1997
Felice de Sanctis