Che strana città Molfetta, capace di passare dalle grandi tensioni ideali alla più manifesta indifferenza. Si è infiammata all’epoca delle ideologie: ricordate il ‘68, gli extraparlamentari di sinistra, i “maoisti”, quelli di “lotta continua”, i cattolici democratici, i “dossettiani” (la destra non ha memoria, non ha mai avuto voce in città, chiusa in qualche oscura sezione con un pugno di nostalgici inoffensivi e qualche giovane scapestrato). Non ha conosciuto, per fortuna, il fenomeno del terrorismo, né gli scontri di piazza. Tutti gli scontri sono stati solo verbali, anche se accesi, nei bar o nei dibattiti pubblici.
Successivamente si è adagiata ai partiti tradizionali, ha conosciuto i guasti della partitocrazia e il fenomeno di una corruzione diffusa, dalle piccole clientele alle vere e proprie tangenti, mai venute alla luce nella loro reale dimensione. Sono affiorate solo vicende di piccolo cabotaggio. Come mai? Forse per una sorta di omertà diffusa, dovuta più a pigrizia che a paura? Forse per la logica della spartizione perfetta, senza lasciare nessuno scontento? Forse, infine, per la compiacenza di tanti, anche in ruoli istituzionali? E l'edilizia, divenuta volano dell’economia locale, a farla da padrona, a ungere ruote e a riempire tasche.
Poi, improvvisamente, dopo questi anni bui e tristi, durante i quali non era consentito dissentire, “esplode” la società civile. Non quella della cosiddetta “maggioranza silenziosa” che ha sempre fatto la storia di questa città tra connivenze e utilitarismi, ma la parte più sana, quella del popolo, della gente che lavora e paga le tasse. Quelli per i quali la moralità ha ancora un senso e che si ritrova insieme attorno a un progetto politico e capisce che deve uscire dalle case, dalle parrocchie, dalle associazioni di volontariato, per diventare essa stessa protagonista della politica, senza delegarla ai partiti che hanno perso credibilità nell'era di Tangentopoli, che la nostra città non ha conosciuto.
È una rivoluzione silenziosa, un riappropriarsi di spazi, dimensioni sociali, realtà politiche che sente propri. Nasce così il fenomeno dei Movimenti. Una stagione esaltante, ricca di speranze, ma forse anche di qualche illusione: quella di poter cambiare tutto e subito. Così la società civile, nel ‘94, esprime il governo della città, un governo costretto, però, a muoversi nella palude della burocrazia, a misurarsi giorno dopo giorno con le resistenze, le paure, le diffidenze di molti, a combattere gli interessi particolari consolidati, le nicchie di potere, a sradicare le radici del malgoverno, dell’assistenzialismo.
Ma la maggioranza silenziosa, divenuta minoranza urlante, non si arrende. Comincia a mettere bastoni fra le ruote, a diffondere voci calunniose, a soffiare sul fuoco anche di ogni piccolo malcontento, a riorganizzarsi.
Costa troppo questo rinnovamento, occorre rinunciare a molte comodità e privilegi, al facile guadagno con qualche incarico professionale in più o qualche nomina giusta e opportuna,che permette vantaggi immediati o rendite di posizione senza sforzo, senza fatica, senza lavoro, anche se avviene al limite della legalità. E la città assiste indifferente, sembra che la tensione ideale sia assopita, che la voglia di riscatto sia dimenticata o messa da parte di fronte alle prime difficoltà. Peccato di ottimismo? No, le rivoluzioni hanno tempi lunghi, soprattutto quelle silenziose e incruente. La democrazia ha bisogno di tempo per crescere e radicarsi. Dopo le prime fiammate che incendiano la facciata del Palazzo, occorre continuare in un lavoro meno esaltante, lungo, difficile, faticoso. Occorrono anni per cambiare la cultura e la mentalità di una città e della sua maggioranza silenziosa.
Quest’atmosfera di indifferenza sembra ormai diffusa nella città. Non si reagisce più a nulla. Nemmeno le fughe in avanti, gli assurdi tentativi di iniziare la campagna elettorale con un anno e mezzo di anticipo, scuote più di tanto il torpore cittadino.
Le autocandidature di Finocchiaro (foto) e Di Gioia, riproposizioni di un vecchio modo di fare politica, sono state accolte anch’esse con indifferenza. Se ne è parlato sui giornali (anche qui con eccessivo anticipo, la cosa non fa notizia), ma non fra la gente, che le ha liquidate con una battuta e ha cambiato discorso. E il discorso sul ritorno dei partiti all’importante e fondamentale ruolo di mediazione fra la società e la gestione della cosa pubblica? Anch’esso ignorato. I tentativi di aggregare le forze in vista della costituzione dell’Ulivo si scontrano con l'individualismo dei gruppi. Perfino la disponibilità del sindaco Minervini a farsi da parte, se fosse necessario, lascia tutti indifferenti. Perfino le forze politiche di maggioranza non hanno sentito la necessità forte di rispondere agli attacchi venuti alla gestione amministrativa che esse sostengono.
Che senso ha, allora, aprire in anticipo la campagna elettorale? Per scuotere i cittadini dal loro torpore? Non credo. Per bruciare la strada a possibili candidati emergenti o a un nuovo fenomeno Minervini? Forse. Per porre con molta arroganza il cappello sulla poltrona di sindaco e far capire ad altri che non c’è posto per loro e che la ricreazione è finita? Probabile. Una decisione calcolata che mira a creare nei cittadini una crisi di rigetto della politica per riprendere in mano le leve del potere? Non lo escluderei.
Tutto ciò è inquietante. Non si può restare indifferenti. La rivoluzione silenziosa e democratica non è finita. Non ci si può adagiare sugli allori (quali, poi?). Occorre rimboccarsi le maniche e ricominciare se non vogliamo che la città faccia una grosso salto indietro. Nel buio.
Quindici - 15.3.1997
Felice de Sanctis