dal nostro inviato
SHANGHAI - L’Italia, fra i Paesi europei, era il secondo partner commerciale privilegiato della Cina, dopo la Germania. Poi, in seguito ai fatti di Tienanmen, c'era stato un crollo dell'export: avevamo perduto ben il 42% delle vendite, scivolando dal 6° all’11° posto nella graduatoria dei fornitori della Repubblica Popolare. Nel 1990 l’interscambio italo-cinese era stato pari a 3.357,7 miliardi di lire, con un calo del 16,3% rispetto all'89. L'export era sceso a 1.165 miliardi (-31,3%), mentre l’import era stato più contenuto (-5,2%, pari a 2.192,7 miliardi in totale). Grazie alla visita del presidente del Consiglio, Andreotti, e a quelle dei ministri Lattanzio e De Michelis in Cina e a quella successiva del premier cinese Li Peng a Roma, la situazione si è sbloccata: per il triennio ‘91-’93 l’Italia erogherà a Pechino 100 miliardi di lire a titolo di dono e 550 miliardi in crediti di aiuto, con un plafond di 300 miliardi di crediti misti (150 in crediti di aiuto e 150 in crediti all’esportazione). Si così riaperta anche per noi la «via della seta», un grande e interessante mercato e abbiamo riconquistato le posizioni perdute. Il nostro Paese è presente in Cina con numerose aziende, che stanno contribuendo allo sviluppo di questa nazione. Oltre alle imprese a partecipazione statale, vi lavorano anche grandi e medie aziende private, che hanno costituito società miste con i cinesi. La nostra presenza riguarda, in particolare, i settori petrolifero, dell’elettrificazione, nonché delle macchine per l’industria alimentare, tessile, della ceramica, degli utensili, per la lavorazione del legno, della plastica e per l'imballaggio. Siamo anche impegnati per la costruzione della metropolitana di Canton e per una rete di telecomunicazioni nella zona di Shangai, oltre che nella costruzione ella nuova sede dell’Università di Canton (con 4 milioni di dollari). La Cina figura sempre al primo posto tra i fornitori dell’Italia per le «materie prime» dell’abbigliamento, in particolare della seta, che da noi viene lavorata ed esportata in altri Paesi. Nel ’91 abbiamo acquistato dal cinesi, in questo settore, merce per 127 miliardi di lire, con un incremento delle importazioni, rispetto al ‘90, del 60,1%. Delusi dall’Urss e dall'Europa dell’Est, gli uomini d’affari italiani stanno tornando in Cina grazie anche ad un efficace ed intenso lavoro promozionale e di sostegno che svolge l’Ice (l’Istituto per il commercio estero) - unendosi alle centinaia di imprenditori stranieri (questo Paese è ormai corteggiato da tutte le potenze economiche del mondo), che affollano ogni giorno l’aeroporto di Pechino. L’accordo più recente è stato raggiunto dalla Benetton, che ha fatto il suo ingresso in Cina mettendosi in affari con la sartoria che ha vestito Mao e che oggi prepara gli abiti di Deng e degli altri principali dirigenti cinesi, i quali hanno ormai abbandonato le anonime bluse della rivoluzione culturale (oggi le indossa solo qualche anziano contadino), scoprendo il gusto della moda occidentale. In particolare l’Italia si sta inserendo nei progetti di sviluppo della Cina meridionale. Qui c’è stata una crescita esplosiva negli ultimi anni, grazie alla creazione delle cosiddette «zone speciali». Fra queste, la nostra partecipazione è mirata a quelle della provincia del Guangdong (Canton), dove vengono sperimentate con successo forme di economia mista, pubblica e privata. Sono previste facilitazioni ed esenzioni fiscali per gli investimenti stranieri e all’area di Pudong (Shanghai), il cui piano di sviluppo prevede una spesa di 10 miliardi di dollari in cinque anni (costruzione di un nuovo porto, autostrade, una centrale elettrica da 600mila kwh, una centrale idrica da 400mila tonnellate al giorno, 50mila linee telefoniche in più, sistemi fognari, ampliamento della centrale del gas). Tutto ciò per decongestionare la città, permettendo la migrazione di due milioni di persone. Il ministro per il Commercio estero Lattanzio, nel corso della sua visita a Pechino, ha consegnato al suo collega Li Lanquing un lungo elenco di imprese che vogliono iniziare a lavorare o incrementare la loro presenza in Cina: dalla Pirelli, all’Iveco, dall’Enichem alla Nuovo Pignone, dall’Alenia all’Agip, dall'Enel all’Ansaldo (già impegnato in grandi lavori nell’area). In questa corsa agli investimenti e all’interscambio commerciale mancano, però, le imprese meridionali, che non si sono ancora organizzate per inserirsi in questo mercato che, in prospettiva, diventerà il più grande del mondo. Per cominciare si potrebbero individuare i prodotti che possono entrare in quel mercato e realizzare solo quelli e non altri che non servono. Per questo progetto occorre l’intervento del governo, che grazie alle informazioni in suo possesso, relative ai mercati internazionali, può suggerire agli imprenditori del Sud il tipo di produzione da scegliere, senza limitarsi semplicemente fornire aiuti economici. Il Mezzogiorno non può perdere anche quest’occasione di incrementare l'export dei propri prodotti. La Gazzetta del Mezzogiorno - 31.3.1992