Dal nostro inviato
PECHINO - Per tornare sulla scena internazionale, dopo l'isolamento successivo al massacro di Tienanmen, la Cina ha avuto bisogno di una guerra. Questa volta, però, non si è trattato di un conflitto nel quale il grande Paese asiatico è stato coinvolto. Le è bastato non opporsi all'intervento armato dell'Onu contro Saddam Hussein nella guerra del Golfo. E le coscienze degli occidentali hanno rimosso in fretta il ricordo di quella repressione, pur di riprendere subito gli affari con un Paese che rappresenta il più grande mercato del mondo, con manodopera abbondante e a basso costo. L'economia, del resto, ha la memoria corta. Ed è proprio sul suo ruolo chiave nel Consiglio di sicurezza (ha il diritto di veto) che fa leva la Cina per rilanciare la sua politica estera e avviare una serie di rapporti bilaterali con tutti i Paesi del mondo, soprattutto a fini economici e commerciali. L' apertura verso, l'estero, infatti, rappresenta una strada obbligata per un Paese che, pur avendo aumentato la produzione industriale, ha necessità di vendere i suoi prodotti sui mercati internazionali. Di qui l'attivismo diplomatico dei cinesi (coronato dalla visita ufficiale in Italia del primo ministro Li Peng a fine gennaio) che, dopo la dissoluzione dell'impero sovietico, puntano ad ereditarne il ruolo e l'autorità a livello mondiale, in contrapposizione all'altra grande potenza, gli Stati Uniti. In questa chiave possono essere letti gli ultimi passi in politica estera, fra i quali la protesta per l'espulsione di 12 palestinesi dai territori occupati da Israele, con la richiesta al governo di Shamir di revocare il provvedimento adottato. Li Peng (foto) sostiene che l'obiettivo del suo Paese è quello di realizzare un'indipendente politica estera di pace. Il modello di nuovo ordine mondiale che Pechino ritiene debba sostituire la vecchia struttura dominata dagli egemonismi di alcune grandi potenze dovrebbe consentire ad ogni Paese il diritto di scegliere in modo autonomo il proprio sistema economico, politico e sociale e il proprio modello di sviluppo, senza subire interferenze o imposizioni da parte di altri Stati (e quindi nessuna pretesa da parte degli occidentali di richiedere il rispetto dei diritti politici); tutti i Paesi dovrebbero, inoltre, avere rispetto per la sovranità e l'integrità territoriale degli altri (col diritto di reprimere il dissenso e di imprigionare perfino i vescovi cattolici, come avviene a Pechino), mentre le controversie internazionali dovrebbero essere risolte con negoziati pacifici e non con l'uso o la minaccia della forza; nessuno Stato dovrebbe ricercare posizioni egemoniche e tutte le questioni andrebbero trattate su una base di uguaglianza; il vecchio ordine economico internazionale dovrebbe essere sostituito da un nuovo sistema improntato a giustizia, ragionevolezza, uguaglianza e mutuo beneficio. E' soprattutto con la Cee che i cinesi vogliono consolidare e allargare i rapporti, anche per la mancanza di conflitti di interesse fra le sue aree. Ma alcuni Paesi europei continuano ad opporre resistenza ad un'intensificazione dei rapporti a livello politico, a causa del comportamento ambiguo di Pechino per quanto riguarda i diritti umani e la proliferazione degli armamenti. Pechino continua a considerare importanti i contatti con gli Stati Uniti, ma non mancano contrasti per un complesso contenzioso commerciale e politico. Gli americani minacciano di introdurre, per la prima volta nella storia dell'interscambio fra i due Paesi (che nel '91 ha chiuso per la Cina con un consistente attivo), provvedimenti doganali restrittivi su alcune esportazioni strategiche" cinesi (tessili, calzature, generi di abbigliamento e alimentari), colpendo un volume di esportazioni pari a 1,5 miliardi di dollari (1.740 miliardi di lire). Da anni le industrie americane chiedono ai cinesi misure conformi alla prassi internazionale, che prevedono il pagamento di royalties per l'uso autorizzato di brevetti e sanzioni per gli utilizzatori abusivi. Ma i cinesi continuano nei loro bizantinismi, malgrado continuino a beneficiare della clausola della "nazione più favorita", applicata di solito ai Paesi del Gatt, del quale la Cina non fa ancora parte. Pechino, dal canto suo, minaccia ritorsioni commerciali contro gli Usa, che restano, comunque, un partner molto desiderato, ma allo stesso tempo temuto come forza sovversiva, perché minaccerebbe la "stabilità" con la sua continua richiesta di garantire i diritti umani e un sistema multipartito. La Casa Bianca, inoltre, ha recentemente condannato la Cina per aver promesso al Pakistan una centrale nucleare di 300 megawatt. Con il Giappone, invece, i rapporti sono migliori (anche in vista di un nuovo credito di 5,64 miliardi di dollari richiesto al Sol Levante), perché considerati fattori di stabilità per l'area Asia-Pacifico, anche se Pechino continua a vigilare sui tentativi di alcuni gruppi di far rivivere il militarismo nipponico. Per quanto riguarda, infatti, i diritti umani la Repubblica popolare ribadisce che il primo e fondamentale diritto è quello di esistere e il governo lo ha garantito per il suo miliardo e 150 milioni di cittadini e insiste nell'inaccettabilità di interferenze esterne, anche se è stata avviata una politica lievemente più moderata verso i dissidenti interni e ogni tanto ne viene qualcuno per accontentare l'Occidente. Restano, comunque, in prigione, a distanza di due anni da Tienanmen - secondo l'organizzazione per i diritti umani "Asia Watch" - un migliaio di dissidenti. La Gazzetta del Mezzogiorno - 2.3.1992