Ogni fumatore italiano “aspira” 1.500 sigarette l’anno
Philips Morris, ad Amsterdam uno dei più moderni centri di produzione
29/10/1992 07:51:00

dal nostro inviato
FELICE DE SANCTIS
AMSTERDAM — In tempi di crisi economica e in presenza di una manovra che impone sacrifici a tutti, è difficile chiedere leggi contro il fumo, con l’obiettivo di mettere al bando per sempre le sigarette nei locali pubblici, come avvenuto recentemente a Roma. Il governo ha promesso una legge, ma per ora è improbabile che rinunci a quest’altra entrata. Dalle sigarette - grazie ad un incidenza fiscale del 72% - nel ‘91 lo Stato ha ricavato un gettito complessivo di circa 8.700 miliardi. Infatti, per un pacchetto di una marca estera, sul prezzo di 3.500 lire, lo Stato ne incassa in totale 2.500, 802 sono l’aggio del tabacco (che sta per essere aumentato) e il resto, circa 770 lire, va al produttore. In Italia i fumatori sono 13 milioni e 350mila e il loro consumo pro-capite annuo è stato, nel ‘90, di 1.576 sigarette, inferiore a quello di Stati Uniti, Inghilterra, Germania. L’industria del tabacco e le attività di distribuzione hanno un rilevante impatto sull'economia dei Paesi europei, in termini di occupazione, produzione del reddito e gettito fiscale. Per quanto riguarda l’occupazione l’Italia è, fra i Paesi Cee, quello a più alto numero di addetti: ben 425.999 impegnati nei diversi stadi della lavorazione (solo nei Monopoli di Stato sono oltre 14mila). In termine di reddito pro-capite al lordo delle tasse attribuibile all'industria del tabacco, siamo al terzo posto, dopo il Regno Unito e la Germania. Le entrate fiscali imputabili al tabacco rappresentano quasi il 4% di tutte le entrate fiscali della Comunità europea. Il mercato italiano resta, quindi, uno dei più interessanti per i produttori esteri (il Monopolio di Stato ha il 51,1% della produzione). Lo hanno ribadito i dirigenti della Philips Morris, la multinazionale del tabacco, che qui ad Amsterdam ha uno dei suoi più grossi e moderni centri di produzione per il mercato Cee. La vendita delle sigarette è fortemente tassata nel Paesi della Comunità, attraverso due sistemi uno specifico e l'altro ad valorem. L'imposta specifica è una cifra fissa per sigaretta, quella ad valorem è, invece, una quota del prezzo massimo del pacchetto al dettaglio, cui si aggiunge la tradizionale imposta sul valore aggiunto, l'Iva. Questi elementi - secondo il Centro di documentazione e informazione sul tabacco - coesistono, ma variano considerevolmente da Paese a Paese, mentre altri prodotti, come gli alcolici o la benzina, sono invece tassati in forma specifica (oltre all’Iva). L’aggiunta della componente ad valorem produce un «effetto moltiplicatore» che distorce il prezzo al pubblico delle sigarette. Se l'ad valorem è del 50%, ogni volta che - per esempio - il produttore decide di aumentare il prezzo per recuperare una crescita del costi, è costretto a raddoppiare tale aumento, perché la metà del ricavo aggiunto va dritta al fisco. Se l'ad valorem è del 75%, l’effetto moltiplicatore diventa pari a quattro, se dell’80% arriva addirittura a cinque e così via. «Non esiste in commercio nella Comunità europea - dicono i produttori esteri altro prodotto di largo consumo che subisce una tale distorsione del prezzo finale». Il motivo principale di questo «trattamento speciale» sta nel fatto che ben quattro Paesi della Cee (Italia, Francia, Spagna e Portogallo) operano in regime di monopolio e non intendono rinunciare a mantenere elevati livelli di ad valorem al fine di scoraggiare l’importazione di sigarette da altri Paesi comunitari. Infine, per i produttori, un’altra discutibile caratteristica del sistema fiscale vigente per le sigarette è la sua «regressività». In pratica le tasse variano in funzione del consumo individuale e non della capacità contributiva del consumatore. Secondo una recente analisi fatta nel Regno Unito, una famiglia povera può spendere fino al 20% del suo reddito in tasse sul tabacco, mentre una famiglia ricca non arriva all’1%. Inoltre è stato dimostrato che la parte più povera del Paese, il 30%, paga più tasse sul tabacco che non imposte sul reddito. Se lo Stato italiano perdesse quegli 8.500 miliardi all’anno che guadagna sulle sigarette, dovrebbe recuperarli da qualche altra parte, magari aumentando le tasse. «Allora - dicono i fumatori - non è meglio che il “vizio” ce lo paghiamo noi, senza appesantire ulteriormente la manovra economica? Però non dovete criminalizzarci escludendoci da tutti gli ambienti perché – è stato dimostrato – che il fumo passivo produce meno danni degli altri agenti inquinanti presenti nei luoghi chiusi».

La Gazzetta del Mezzogiorno - 29.10.1992

Felice de Sanctis
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