Grazie nazionale di calcio, grazie Mancini per aver restituito agli italiani quell’orgoglio e soprattutto quel sentimento di appartenenza, che la politica ci aveva fatto dimenticare.
Ci voleva lo sport per farci sentire italiani accomunanti da un unico sentire, da un unico obiettivo, uniti e non divisi, visionari in una possibilità di rinascita collettiva.
E’ quella rinascita che tutti aspettiamo e che tarda ad arrivare perché le divisioni sono più diffuse delle unioni, perché gli individualismi e gli egoismi prevalgono e gli interessi personali sono sempre al di sopra di quelli generali.
Riscopriamo di essere un popolo solo con lo sport. Non siamo mai stati una nazione da Garibaldi in poi, dall’errore storico di un’unità d’Italia fittizia voluta dai piemontesi per i loro interessi, che hanno perpetrato per anni, creando quel divario Nord-Sud che ha finito per danneggiare tutti (andatelo a spiegare a Salvini e Meloni che confondono nazionalismo con idea di nazione).
Lo sport ci ha insegnato che l’unità fra uguali è possibile (non l’uno vale uno di infausta grillina memoria, che mortifica il merito e la professionalità con i risultati devastanti che vediamo in politica), quale che sia la condizione, la provenienza (nord o sud), le idee. Si può creare il sentimento collettivo e quello di appartenenza.
La lezione dello sport, come ha ricordato Aldo Cazzullo sul “Corriere della Sera” è quella che la Nazionale finisce sempre per assomigliare alla nazione che rappresenta (nazione che i politici non conoscono e che tentano di dividere per dominare il popolo).
Sempre Cazzullo ci ricorda i passaggi di questa nostra storia che condividiamo: «L’Europeo 1968 incrociò un’Italia uscita da una secolare povertà, alla vigilia di una stagione inquieta e violenta, che però almeno per una notte riscoprì il tricolore. Era un tempo in cui i calciatori non cantavano l’inno, che non veniva considerato una cosa importante; adesso lo è.
Con il Mondiale 1982 l’Italia cambiò umore. Finivano gli anni della politica di strada e di piazza, cominciava l’epoca del riflusso, del campionato di calcio più bello del mondo e della febbre del sabato sera, quando persino ballare era una cosa che si faceva da soli. Fu un’epoca fatua, che alla lunga avremmo pagato cara; ma fu anche l’ultima volta in cui siamo stati felici, almeno tutti insieme.
Il Mondiale 2006 fu un lampo nel buio di un Paese che già non credeva più in se stesso, ed era atteso da prove terribili: la grande crisi prima finanziaria poi economica, e ora la pandemia con il suo carico di dolore. Se anche questo Europeo resterà un bellissimo ricordo in un momento oscuro, o se invece diventerà davvero il simbolo di una rinascita, questo dipende soltanto da noi».
Se dovessimo giudicare gli italiani dai politici, dovremmo considerarci un Paese in decadenza irreversibile. Un senso di rassegnazione ci prenderebbe e non saremmo capaci di reagire, come è avvenuto nel dopoguerra, quando, anche con gli aiuti americani, siamo riusciti a realizzare il boom economico. Allora lo spirito nazionale era prevalente, la voglia di riscatto pure.
Oggi prevale l’attesa, un attendismo di qualche uomo della provvidenza che possa portarsi fuori dalle sacche di povertà in cui siamo precipitati.
Ma la lezione dello sport è stata quella di credere nel gioco di tutti, così anche una squadra non grandissima, senza fuoriclasse, ma che si sente un gruppo coeso, è riuscita a vincere quello che sembrava impossibile. Una lezione per i nostri politici, che, al di là degli elogi e di presunti meriti, dovrebbero fare un bagno di umiltà per trovare un’identità che ancora manca al Paese. Fare gruppo, significa essere più forti e vincere. Ma fare gruppo realmente e non apparentemente come fa la Lega di Salvini che finge di stare al governo per urlargli contro fuori dal palazzo, per conquistare voti a danno della rinascita del Paese.
I ragazzi di Mancini ci hanno fatto sentire orgogliosi di esserlo, senza vergognarci di essere italiani, ma anche senza essere presuntuosi come gli inglesi che con un gesto che cancella anni di fair play si sono sfilati le medaglie dal collo. Uno squallore unico.
Non hanno più nulla dai insegnarci i britannici, scivolati anch’essi nel più volgare dei comportamenti, quello dell’odio verso gli avversari e del rifiuto della democrazia e del merito. Ecco perché hanno scelto la Brexit, fuori dall’Europa perché diversi, egoisti, individualisti, miserabili.
L’Italia del calcio ci ha insegnato a non temporeggiare, ma a sostenerci uno con l’altro per vincere le sfide difficili. Questa è l’Italia che ci piace, non quella dei sotterfugi, delle alchimie politiche e delle alleanze interessate, come è avvenuto a Molfetta con la vergogna delle liste civiche: personalismo e interessi, al di là dei bisogni reali dei cittadini. Polvere di cemento, contro la difesa dell’ambiente e del territorio, arricchimento individuale, anche con sistemi poco leciti sotto accusa da parte della magistratura. Allo sport riesce ciò che non riesce più alla politica e alle altre forme del nostro vivere sociale: creare quello stupore collettivo, che alla fine diventa identità di un popolo orgoglioso di essere tale sotto la stessa bandiera, non più bruciata, strappata e vilipesa, come ha fatto la Lega Nord per anni.
Lo sport ci insegna che la lotta si può fare dentro le regole, le norme che regolano una disciplina, con la capacità dei contendenti di autoregolarsi, mentre cercano di superarsi. E chi fa il furbo, viene ammonito senza sotterfugi o ripensamenti: punizione o espulsione per chi viola le norme, anche di rispetto dell’avversario.
Ecco perché l’epopea sportiva, ricordata da Ezio Mauro che su “Repubblica” ha citato Roland Barthes, esprime “Quel momento fragile della storia in cui l’uomo, anche maldestro e gabbato attraverso favole impure, intuisce ugualmente un perfetto adeguamento tra sé, la comunità e l’universo”.
Allora prendiamo la lezione dello sport, di questi ragazzi umili che con sofferenza e sacrificio si sono battuti, non per essere i primi della classe, ma la classe che, se vince, è merito di tutti e la gioia diventa collettiva, e trasferiamo questi principi alla politica. Ne avremo tutti vantaggio, ma soprattutto sarà la vera rinascita economica e sociale che non può dipendere dal Draghi di turno, ma deve essere frutto di uno sforzo collettivo, rinunciando tutti a qualcosa (a cominciare dall’evasione fiscale) per arrivare a quel benessere collettivo che oltre a un segno di civiltà è anche un simbolo di quell’umanità troppo spesso dimenticata.
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