La lontananza sai, è come il vento, spegne i fuochi piccoli, ma accende quelli grandi, cantava così Domenico Modugno e le sue parole ci sono venute a mente in questa pandemia che impone lontananza a parenti e amici, mettendo a dura prova i nostri sentimenti e il desiderio di stare insieme. Ma la lontananza spegne le ipocrisie e accende le verità di tanti rapporti umani.
Prima eravamo vicini? No, era solo un’illusione: eravamo vicini nel gruppo, ai concerti, nei bar, nelle discoteche, ma non eravamo sentimentalmente vicini perché non ci amavamo. Soffrivamo, senza saperlo di alessitimia, quell’analfabetismo emotivo che non ci fa distinguere tra emozioni e sentimenti. Abbiamo confuso il corpo con il cuore e ci siamo affidati agli emoticon per esprimere una vicinanza con gli altri, che non è reale, ma serve a nascondere un’ansia da vuoto interno, inconscia, ma reale.
La pandemia del Covid ci costretto ad accettare un cambiamento che, per certi versi, è un ritorno al passato, alla semplicità dell’esistenza umana proprio quando utilizziamo la didattica a distanza e lo smart working, questa modernità tecnologica, che ci ha fatto venire nostalgia del passato. La globalizzazione dei sentimenti sta tutta qui, non nel mercato, nell’economia, ma nel ritorno alle origini, un progresso che non è regresso, ma riscoperta di valori che avevamo dimenticato o mai conosciuto.
Con la pandemia ci sentiamo molto più simili e meno diversi: è la livella del virus a ricordarcelo. Ci ritroviamo sconcertati, impotenti davanti all’ignoto, a un invisibile virus più forte delle armi e della tecnologia, che usa proprio il fattore umano per distruggerci. Il nostro respiro diventa l’arma con cui ci toglie lentamente la vita, costringendo a mascherarci come alieni e a nascondere i nostri sorrisi e le nostre sofferenze, trasformando i nostri volti in anonime maschere dove solo gli occhi riescono ad esprimere un sentimento.
La biologia diventa così un nuovo fattore di rivolta al disordine umano e sociale? Siamo tutti attoniti e incerti di fronte a un futuro misterioso, disegnato da un virus più potete delle potenze mondiali.
Avevamo dimenticato il dolore, la morte, l’impotenza, il destino, il fato. E paghiamo il conto dei nostri errori, l’illusione che non esiste l’impossibile, che un essere inafferrabile e invisibile possa divenire padrone della nostra vita. E riscopriamo il mistero, l’incertezza, la fragilità di fronte a chi può colpire come e quando vuole, senza che possiamo difenderci.
La frenesia quotidiana si ferma davanti all’attesa, il ritmo non lo portiamo noi, ma la realtà esterna. I cittadini si sono dovuti confrontare con una realtà fino a poco tempo prima inimmaginabile tra blocco delle attività, quarantena, distanziamento sociale e paura del contagio. Questo tempo attuale non ci capiterà facilmente di volerlo rivivere: senza colori, senza rumori, tranne che per il suono delle sirene delle ambulanze dirette all’ospedale.
Figure solitarie senza lineamenti camminano sulla strada, lentamente, attente a scansarsi, non si può essere vicini. Improvvisamente tutte quelle che erano le certezze, le abitudini e in nostri collaudati ritmi quotidiani, sono saltati.
Siamo in un lungo tempo sospeso. Rivediamo il valore della vita e dell’altro che ci salva (medico o infermiere) che ci appare un eroe in questa guerra senza eserciti, ma che in realtà fa solo il suo lavoro quotidiano del quale non ci eravamo mai accorti prima. Oggi lo rivalutiamo, soprattutto quando può diventare estremo sacrificio per salvare vite umane.
Non sappiamo più chi siamo, abbiamo perduto molte certezze, ma ne abbiamo acquisite altre, a cominciare dai nostri limiti. Che esistono. Eccome. Abbiamo ripreso a interiorizzare i valori, a riscoprire la famiglia e gli amici, ora che è vietato incontrarsi. Eravamo tutti distratti e un virus ci ha costretto a riflettere e a fermarci anche nelle fughe verso vacanze in luoghi lontani, quando non ci eravamo mai guardati intorno per scoprire il nostro microcosmo accogliente.
Abbia scoperto tutta la nostra fragilità ed è stato il virus a imporlo quando ha dimostrato che può uccidere più di una guerra, alla quale si arriva disarmati: non si combatte, si soccombe. Ecco la metafora della guerra come spiegazione di un fenomeno imprevisto e nemico.
Tra egoismo e solidarietà, la tentazione di ritornare a sentimenti primordiali, ha lasciato spazio alla condivisione. Il bisogno di aiuto di fronte a un nemico invisibile e sconosciuto, ci ha fatto mettere da parte narcisismo, individualismo, egoismo, tutte quelle solitudini che avevamo dentro, mentre oggi ci aggrappiamo a chi può salvarci in questo naufragio. Siamo arrivati al punto da scegliere chi deve vivere e chi morire, come nelle guerre tribali, dove la cultura non trovava posto e c’era la legge dell’istinto e della sopravvivenza.
Abbiamo riscoperto perfino il valore della scuola, spesso bistrattata, marinata, derisa e oggi cercata come ancora di salvezza di umanità fatta di sguardi, di incontri, di contatti, di esperienze fisiche per combattere l’isolamento imposto dalla pandemia e da internet, che credevamo amico, ma che riscopriamo nemico, quando ci isola dal mondo e dagli altri. Eravamo robot che comunicavamo attraverso una tastiera, che ci dava l’illusione di una potenza, di poter navigare nel tempo e nello spazio, di essere protagonisti in una realtà virtuale, che oggi scopriamo effimera e ingannevole, perché non possiamo parlare con l’individuo della porta accanto, ieri ignorato, oggi cercato come residuo di umanità e convivenza sociale. Desideriamo un incontro con un uomo reale, non virtuale, che non sia solo un’immagine riflessa da uno schermo.
Abbiamo ricoperto il nostro prossimo proprio quando non possiamo incontrarlo, toccarlo, abbracciarlo, in quei gesti di fisicità che portano al cuore. Ma poi ci scagliamo contro i migranti, con un razzismo che risiede nell’inconscio, come ha detto qualcuno, perché li scopriamo migliori e più forti di noi, capaci di attraversare i deserti, i mari dopo essere sopravvissuti anche alle torture.
Ecco la nostra fragilità e vulnerabilità in tutta la sua evidenza. La natura si è presa la rivincita: con il virus, le inondazioni, gli uragani che ci vedono impotenti contro quella che gli antichi definivano l’ira degli dei, custodi della natura che abbiamo violentato, ma che esisteva ed esisterà anche dopo di noi, seppur mutata, ma sempre padrona del mondo che l’uomo si illude di controllare. E si muore oggi come si moriva un tempo, quando si voleva sfidarla.
La pandemia ci ha insegnato che la salute vale più del business, ribaltando il concetto “meglio morire di malattia che di fame” e che la libertà ha un limite quando tocca la salute e la libertà di tutti. Abbiamo capito il valore dell’Europa, senza della quale saremmo stati spazzati via con la nostra liretta e un’inflazione senza controllo, e c’è ancora chi discute sull’utilità del Recovery fund e sul Mes. I soldi, il successo, sono gli strumenti attraverso cui ci è stata data l’illusione di poter essere potenti amati, scoprendo poi che non sono affatto garanzia di sentimento e di condivisione, che scompare appena siamo in difficoltà.
Dal flashback siamo passati al flashforward dal guardare indietro al guardare avanti, perché abbiamo capito che l’uscita da questa crisi non sarà rapida quanto il suo ingresso. Chi paga e pagherà il prezzo più alto saranno i più deboli, i poveri e i nuovi poveri: i giovani.
In questa drammatica stagione va in scena sul palcoscenico del mondo il valzer delle ipocrisie: promesse di cambiamenti, di aumento di partecipazione, di attenzione ai più poveri, ma alla fine tutto torna come prima e sulla scena restano i clown della politica, da Trump a Johnson, da Salvini a Meloni, illusionisti tragici di una realtà negata.
«L’ipocrisia è una comunicazione che finge di essere una relazione» ha scritto lo studioso Vincenzo Masini. L’ipocrisia della politica e del suo linguaggio di falsa inclusione, accentuata dalla pandemia, con l’infido buonismo, genera aspettative destinate ad essere deluse, col rischio di provocare rifiuto sociale, soprattutto verso le minoranze. Il volto del potere ipocrita che ci sfugge, che si nasconde dietro falsi criteri legalitari e giustificazionisti che coniugano, nella nostra città, la “politica del fare” col mantenimento della poltrona e delle posizioni di potere, che si manifestano con il rifiuto del dialogo con le opposizioni alle quali vengono attribuiti tutti gli errori del passato. In questa gestione del potere, l’ipocrisia è il primo elemento che caratterizza l’azione amministrativa attraverso la propaganda e la negazione degli errori, tutti attribuiti a chi c’era prima e non aveva il potere salvifico degli attuali gestori della cosa pubblica, per giustificare un modo di amministrare un po’ disinvolto, fuori dalle regole considerate legacci per la “politica del fare”. Nasce così “Appaltopoli” del quale non abbiamo visto ancora gli sviluppi, ma che già si esorcizzano, negando ogni responsabilità che andrà verificata.
Papa Francesco ci ricorda che è necessario mettere in campo delle scelte e delle azioni, anche a livello politico ed economico, che sappiano esprimere una fraternità come cifra che custodisce la giustizia, la libertà e la dignità di ogni uomo.
E, ancora una volta, ritornano le parole di don Tonino Bello e dei suoi auguri scomodi: «Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita, il sorpasso, il progetto dei vostri giorni, la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.
Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che il bidone della spazzatura, l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa».
Buon Natale con la speranza che l’ipocrisia si trasformi in lealtà per essere meno politici e più umani.
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Auguri ai Lettori di “Quindici” con la copertina di Francesco Mezzina: «Quest'anno ho pensato ad una Molfetta di periferia perché anche qui ci sono "segni" che marcano il territorio. Il Campanile della chiesa è ormai un simbolo moderno di quella parte di Molfetta, oltre che essere un elemento che appartiene alla religione delle festività che tra poco andiamo a celebrare. Adesso come si vede è adornato dalle solite luminarie ma, in primo piano vi è un albero di ulivo, ma spoglio simbolo di un Natale come quello di quest'anno a causa della pandemia che ci ha colpito come comunità. In primo piano una mascherina consunta e abbandonata per terra (simbolo anch'esso di questo periodo ma anche simbolo di un gesto maleducato che purtroppo ci contraddistingue)».