FELICE DE SANCTIS - È l’economia la più grande contagiata dal Covid-19, quel diabolico coronavirus che sta facendo strage di uomini, ma anche di stili di vita, abitudini consolidate e delle stesse libertà individuali sempre più limitate.
La grande malata della ripartenza, però, è l’economia, sia perché ogni mese di ulteriore misura di contenimento provoca una perdita annuale di due punti percentuali del Pil (il prodotto interno lordo, il valore dei prodotti e servizi realizzati all'interno di uno Stato sovrano in un determinato arco di tempo), sia perché complessivamente l’Italia pagherà il conto più salato fra tutti i Paesi del mondo con una contrazione del 9,1% (solo la Grecia, forse, farà peggio di noi).
Si calcola che la crisi economica conseguente al Covi incrementerà la disoccupazione mondiale di 25 milioni di unità. E l’Italia che in tema di carenza di lavoro è tra le peggiori, certamente farà crescere le già elevate percentuali che vedono il Sud con il 50%, in pratica un giovane su due non lavora.
Se si pensa poi al settore turistico, punto di forza del nostro Paese e del Mezzogiorno in particolare, si deve registrare una previsione del calo della produzione che va dal 50 al 70%: un disastro.
Siamo di fronte al più grande choc economico, finanziario e sociale dopo la crisi finanziaria del 2008 e l’11 settembre del 2011, con arresto o forte riduzione della produzione e un drastico calo dei consumi.
Le azioni di governo per fronteggiare questa emergenza devono tendere a proteggere i lavoratori, stimolare l’economia e l’occupazione, sostenere il lavoro e il reddito. Il che vuol dire aumentare la protezione sociale, cercare di mantenere i posti di lavoro, concedere sgravi fiscali e finanziari per le imprese, anche piccole e medie.
In questo momento agli italiani fa più paura la situazione economica personale e del Paese che le possibili conseguenze per la salute legate al coronavirus. Insomma, meglio morire di virus che morire di fame, come hanno ammesso anche molti cittadini di Molfetta, rispondendo alle domande dei giornalisti di “Quindici” nell’inchiesta pubblicata nelle altre pagine di questo numero.
Questa impressione è confermata anche da alcuni dati registrati da sondaggi di alcuni osservatori economici secondo i quali il 45% degli intervistati è preoccupato per i redditi della propria famiglia, il 56% per la tenuta del Paese e solo il 32% per la salute, anche in conseguenza del calo dei contagi dell’ultimo periodo.
Tutti sono convinti che nulla sarà più come prima, non solo per quanto riguarda il lavoro, i redditi, la capacità di spesa e quindi di consumi. In questo scenario si rafforza l’e-commerce, l’acquisto di beni on line, che con la pandemia è diventato una necessità, ma che si è consolidato come abitudine negli italiani, che difficilmente torneranno a frequentare i negozi tradizionali sia per economia di tempo, sia per evitare le lunghe code legate alle misure di contenimento del contagio.
Insomma, si prevede la crisi economica più difficile dopo la seconda guerra mondiale, con la differenza che, all’epoca, gli Usa aiutarono l’Italia col Piano Marshall, oggi gli americani pensano solo a se stessi, anche grazie a un presidente sovranista e demagogo come Trump. Dopo la Grande Depressione e le crisi petrolifere, questa del Covid-19 comporterà una rivoluzione copernicana della quale non siamo ancora in grado di prevedere effetti e conseguenze.
Cambierà l’idea stessa del lavoro, una metamorfosi culturale che ci trova impreparati di fronte a ipotesi, già sperimentate in questo periodo, come quella che il lavoro non è più misurato in ore e in specifici luoghi di lavoro. Questo comporterà anche un cambio di visione della spesa pubblica. Ecco perché, forse, il nostro sindaco e l’amministrazione comunale di destracentro si affrettano a spendere i soldi che hanno ereditato anche dai finanziamenti del porto, in opere anche non strettamente necessarie, col timore di non poterle fare più in futuro.
Infatti, quello che conterà non sarà l’impegno, ma la qualità della spesa pubblica, come è giusto che sia in una carenza di disponibilità finanziarie che dovranno privilegiare l’assistenza ai lavoratori e alle imprese per evitare il tracollo economico del sistema.
Il cambio di mentalità coinvolgerà non solo i lavoratori, dipendenti o autonomi che siano, ma anche gli imprenditori che al Sud erano già carenti di cultura di impresa e difficilmente riusciranno ad adattarsi al nuovo concetto di economia che travalica luoghi fisici e orari di lavoro con nuove logiche e prospettive. Chi non riuscirà ad adattarsi, sarà fuori e non potrà sperare in aiuti assistenziali.
Tra l’altro non è detto che questi cambiamenti siano negativi. Anzi il concetto di ufficio “open” potrà favorire la creatività delle persone e generare relazioni diverse, oltre i confini aziendali, stimolando nuove idee e nuovo business.
C’è chi ha già descritto questa nuova forma di “capitalismo informazionale” del XXII secolo, la società in rete, profetizzata da Manuel Castells, catalano in fuga dal franchismo e docente a Berkeley dal 1979 con una trilogia pubblicata negli Usa già nel 1996. Una analisi rigorosa e approfondita del modello produttivo dominante: l'impresa a rete. Una mappa del capitalismo globale, dal Giappone all'Italia, e del conseguente mercato del lavoro segnato dalla flessibilità e dalla superiorità dell'animale umano nell'elaborare simboli come principale forza produttiva. Le nuove forme di organizzazione economica di una società che funziona come una rete che irradia potere, si vincola per mezzo del computer e genera relazioni di organizzazioni delle relazioni sociali e occupazionali.
In questa situazione si generano anche nuove figure professionali o si incrementano quelle finora marginali, come il personale supplementare nei settori dell’assistenza sanitaria, della logistica, dei servizi di consegna, dell’agricoltura, dei fornitori di servizi IT e di personale addetto alle pulizie. Emergeranno imprese temporanee e lavori temporanei con la necessità di essere sempre più flessibili. Insomma, un regime di precarietà permanente, alla quale i nostri giovani dovranno abituarsi.
L’esplosione della crisi economica, porterà inevitabilmente a quella della tenuta sociale e forse anche politica. In questa situazione che vede tanta spesa corrente, poca spesa in conto capitale e nessuna in investimenti strategici, il rischio è quello del maggiore indebitamento per un Paese come l’Italia che ha già un debito pubblico elevato. Ma occorre far fronte all’emergenza con interventi di sollievo e di sostegno, distribuendo risorse immediate. Il problema è dove andarle a recuperare dopo. La tentazione del governo potrebbe essere quella della patrimoniale, una tassa sui beni mobili e immobili. In teoria dovrebbe essere una tassa sulla ricchezza, ma in pratica finisce per colpire sempre i più deboli, che hanno risparmiato qualcosa e possiedono beni frutto di anni di lavoro e sacrifici, mentre gli evasori risultano nullatenenti. Chi non ha nulla sulla carta, molte volte è più ricco e benestante di chi la casa di proprietà e una seconda abitazione per i figli, che oggi sono precari o disoccupati.
Una tassa ingiusta e impopolare che colpisce la classe media, già decimata dalla crisi finanziaria, mentre la classe alta sfugge a qualsiasi redistribuzione del reddito anche in tempi di crisi. Una cura peggiore del male.
Sarebbe l’inverno del nostro scontento, per dirla alla Steinbeck.
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