La forza della cultura contro l’odio e la paura
15/07/2018

FELICE DE SANCTIS - Siamo ad un bivio drammatico della nostra storia, della nostra civiltà e perfino della nostra cultura. Siamo al bivio tra ieri e oggi e forse anche domani. Tra quello che eravamo e ciò che non sappiamo dover essere. E soprattutto siamo soli in un sistema globalizzato che ci fa essere tutti più poveri, insicuri, timorosi di un futuro che non conosciamo, perché sicuramente diverso da quello che ha caratterizzato la nostra civiltà fino alla fine del Novecento. Un secolo terribile, ma nel quale tutti sapevano a cosa andavano incontro nelle loro azioni, nei comportamenti individuali e in quelli collettivi. Un mondo che non era certo dei migliori, quello del secolo breve, ma che ci dava alcune certezze. Ora la transizione verso un nuovo sistema globale è ancora incerta, fino al punto che ha colto di sorpresa le stesse classi dirigenti, abituate a ragionare con la logica consolidata degli ultimi anni.

Non sappiamo se stiamo rispolverando la vichiana regola dei corsi e ricorsi storici, ma anche se così fosse, il ritorno al passato si presenta in forme diverse e soprattutto mascherato da necessità storica ed economica. E questo lascia aperta la strada all’incertezza, alla paura del futuro. E del diverso. Di fronte a questa incertezza globale, c’è chi le sue certezze le ha sicuramente, quelle di cavalcare la paura e l’insicurezza a fini personali e politici.

Ma quello che preoccupa di più è la regressione culturale non solo nel nostro Paese, dove il problema sta diventando endemico, dalla scuola alla società, nella convinzione che avere competenze e conoscenze sia inutile. Che per conoscere basta leggere tutto su internet e dare una spiegazione anche a quello che non si conosce. E questo vale per ogni branca del sapere. La facilità con cui troviamo quelle che ci sembrano le soluzioni ai problemi, ha fatto fiorire anche movimenti politici che sul web hanno costruito la loro fortuna, dando l’idea ai propri adepti, di poter semplificare tutto, perfino di poter governare una città o una nazione, con poche regole e scarse nozioni.

E’ questo il fenomeno che viene chiamato, in modo giustamente dispregiativo, populismo. Una malattia che ci colpisce tutti, generando classi dirigenti di basso livello e qualità, dal piccolo Comune fino al vertice del Paese. Di questa situazione hanno approfittato i soliti furbi, in molti casi ignoranti anche loro, ma pronti a cavalcare l’ondata qualunquista e populista, per acquisire consenso attraverso l’individuazione di un nemico comune, al quale attribuire tutte le responsabilità dei problemi di una società che diventa sempre più povera e dove la classe media, che era l’ossatura portante della nazione, è divenuta fragile, insicura, perdendo potere di acquisto e sicurezza economica. Ne è scaturito un aumento della disoccupazione, che è il primo campanello di allarme di un sistema economico, prima ancora che una diminuzione o una stagnazione del Pil (il prodotto lordo, quello che si produce in un Paese).

Oggi ci troviamo a fare i conti con un Paese più povero, con dirigenti politici incapaci di trovare, più che di proporre soluzioni, e l’unica soluzione ai difficili problemi (qui, c’è un ricorso storico) è quella di trovare un nemico al quale attribuire tutte le responsabilità. Il nemico è una realtà astratta più grande di noi, verso la quale ci sentiamo impotenti, il riferimento è all’Europa, ma è anche una presenza concreta, il “diverso”, il migrante, al quale è facile attribuire tutte le colpe, sul quale è facile scaricare tutte le nostre insicurezze e le nostre paure di una criminalità che, pur non essendo in aumento, viene percepita come tale, a confronto che una realtà economica più povera.

L’Italia da Paese ricco, è diventato un Paese povero. Siamo in decadenza e non ce ne accorgiamo e, invece di reagire, come abbiamo saputo fare nel dopoguerra, rimboccandoci le maniche e solidarizzando fra di noi, abbiamo scelto la strada di incolpare il nemico, che negli anni Venti era la perfida Albione, oggi è il nero disperato che sbarca sulle nostre coste.

Ma c’è l’incapacità della politica a canalizzare questa singole individualità in un progetto collettivo che superi le crescenti frustrazioni individuali e le aspirazioni private, convogliandole in una causa comune.

In questa situazione di malessere collettivo evidente (avete notato che da popolo allegro, siamo diventati un popolo triste?) si sono inseriti i populisti alla Salvini che alimentano la paura e l’odio razziale, parlando alla pancia degli italiani, soprattutto di quelli non dotati di grande cultura, e che oggi, purtroppo, sono la maggioranza, creando un clima di diffidenza anche verso coloro che, invece, sono per l’accoglienza e razionalmente vedono i migranti come una risorsa e non un ostacolo alla crescita.

Ha ragione Ezio Mauro, già direttore di Repubblica a scrivere che «Salvini si muove in una dimensione metafisica, dove la realtà conta meno della sua percezione e il razionale è sovrastato dal fantastico».

Mauro chiama in causa anche quegli intellettuali succubi alla predicazione della paura, mentre dovrebbero riattivare una pubblica opinione autonoma, indipendente e critica, difendendo il pensiero liberale sotto attacco.

E Roberto Saviano invoca una insurrezione civile e democratica contro questa barbarie fondata sulla menzogna sistematica. Ciascuno di noi, dice Saviano, facendo il proprio lavoro con onestà, vivendo e trattando il prossimo con onestà, può fare la sua parte.

Oggi invece si preferisce urlare nelle piazze e sui social, per nascondere le proprie incompetenze, preferendo seminare odio per raccogliere un consenso rapido e consistente, ma che poi non si sa come spendere a vantaggio della popolazione.

Ecco la regressione culturale in corso, prodotta da una disinformazione sistematica che ha portato a considerare l’odio razziale, una legittima opinione rivendicata nei social. Il mancato rispetto dell’altro che non condivide le nostre opinioni, l’aggressione sistematica, verso chi non la pensa come noi, fa sentire questi esseri mediocri dei giganti, per il solo fatto di poter scrivere quello che vogliono e sentirsi così importanti. La regressione culturale diventa anche regressione antropologica, perché è fatta di pulsioni, una strada che porta alla distruzione di una civiltà. Se uno è diverso è per ciò stesso nemico, perché ci porta via soldi, lavoro, sicurezza, ecc.

«Se uno non ha un nemico, non riesce a caratterizzare se stesso», dice lo psichiatra Vittorino Andreoli, e qui troviamo un altro ricorso storico: ieri la caccia all’ebreo, oggi la caccia al migrante, sono molto simili.

Gli inglesi chiamato hater questi soggetti, coloro che odiano: stanno diventando una specie umana.

Ma quale Italia lasciamo ai giovani, col compito di ricostruirla? Un Paese dove sta cambiando tutto a cominciare dal problema demografico, con la riduzione delle nascite a causa proprio della disoccupazione e della precarietà, per cui mettere su famiglia viene considerato giustamente un ostacolo. E la soluzione è una sola, caro Salvini, l’immigrazione. Sarebbe ora di affrontare il problema non ricacciando in mare questi disperati, ma accogliendoli e iniziando ad integrarli, se vogliamo salvare la nostra civiltà, i nostri valori, le nostre tradizioni. A questi nuovi italiani, a cui va data la cittadinanza, dobbiamo trasmettere un patrimonio culturale: solo così è possibile l’integrazione, senza paura. Secondo gli studiosi abbiamo meno di 50 anni, prima che i nativi diventino una minoranza. Occorre gestire le poche risorse che abbiamo, redistribuendo la ricchezza. Di questo il furbo Salvini non parla, perché vuole arricchire ancora di più i ricchi, puntando all’ingenuità dei poveri, che si affidano periodicamente all’uomo della provvidenza, facendosi usare dalla politica.

Ma questo non si può fare facendo la guerra all’Europa, con un assurdo autarchismo che non ha funzionato durante il fascismo e che sarebbe più deleterio oggi in epoca di globalizzazione. L’Italia non ha materie prime, è un Paese di trasformazione, non può mettersi a fare la guerra senza munizioni. Il rischio è di restare isolati economicamente e culturalmente. Oppure di alimentare un nazionalismo che ha portato sempre ai conflitti. Non dimentichiamo che l’Europa unita è nata per questo, per evitare nuove guerre (Salvini dovrebbe ripassare un po’ di storia, gli farebbe bene).

L’insulto può pagare a breve (e non è così), ma alla fine diventa un boomerang. Aizzare i cittadini uno contro l’altro serve ad evitare che il popolo (in questa caso la plebe) controlli i politici. Alla fine a pagare saranno sempre gli ultimi, che in questo caso saranno sì accomunati ai migranti, uniti nella disperazione per la follia del potere senza controllo. Questa deriva va fermata subito, senza violenza, prima che sia troppo tardi.

© Riproduzione riservata

Felice de Sanctis
Copyright© 2006 Felicedesanctis.it .Tutti i diritti riservati. Powered By Pc Planet