Caro don Tonino…
15/04/2018

FELICE DE SANCTIS - Caro don Tonino, questa volta ho pensato di rivolgermi direttamente a te, come se tu fossi ancora qui con noi, perché in realtà lo sei. E la tua presenza la sentiamo in tanti in questo mondo di ingiustizie che crea nuove povertà, nuovi schiavi, nuove miserie del cuore.

Quella religione del cuore che ci hai insegnato resta incompresa, anzi crea ostilità e perfino odio se parli di solidarietà, di accoglienza, di pace. Prevale la legge della violenza a danno dei più deboli, dei poveri, degli sfruttati, dei migranti, dei bambini, dei vecchi, delle donne. E dei giovani, sempre in “collocazione provvisoria”. Sono loro i nuovi poveri, emarginati anch’essi dalle leggi spietate dell’economia globale, il nuovo vitello d’oro al quale tutti si inchinano. Manca un Mosè che possa e voglia distruggere il nuovo idolo in nome del quale si compiono tutte le più grandi empietà.

E non è un caso che ritorni dominante il termine “sovranismo” per soddisfare l’egoismo delle masse pilotate dai signori degli affari, che hanno fatto tornare indietro di secoli la società dei diritti e della solidarietà, a vantaggio di quella dell’egoismo e della forza. E’ scomparsa la classe media, che si è scoperta anch’essa emarginata, senza diritti e senza risorse sufficienti a una vita dignitosa, collocandosi far i nuovi poveri. Mentre i ricchi si arricchiscono sempre di più, pur essendo una minoranza che possiede il 90% del pianeta.

Così tornano a trionfare i segni del potere. E il “potere dei segni”, che ci hai insegnato, resta patrimonio di pochi coraggiosi che affrontano la supremazia dei forti con le deboli armi della parola, dell’esempio, del sacrificio. Una volta efficaci, oggi non più. E’ cambiata la cultura del mondo, anzi non c’è più cultura. E il coraggio diventa merce rara, anche se sempre più necessaria.

Ricordo ancora quando in uno dei nostri amichevoli incontri mi chiedesti, lasciandomi stupito: «dammi coraggio!» e io che non avevo la forza del tuo carisma, restai senza parole. «Come io, povero cristiano debole e insicuro, devo dare coraggio a te, simbolo di forza spirituale e umana, come dimostri ogni giorno?».

E tu mi rispondesti: «Sì, perché anche un vescovo che si trova in una città non sua, ad affrontare tanti problemi e a incontrare tanti ostacoli, ha bisogno di coraggio. Non pensavo di ricevere tanta ostilità». Ma le tue parole non erano di sconforto, non eri abbattuto, eri semplicemente amareggiato dalla reazione, soprattutto dei politici alle tue parole e ancor più alle tue azioni. «Avevi ragione – aggiungesti – quando ci conoscemmo e mi descriveresti la città e i suoi abitanti, le sue paure, le sue ipocrisie, le sue vanità e le sue miserie».

Naturalmente non potevo sottrarmi al tuo invito e cercai, nel mio piccolo, di darti quel “coraggio” che mi chiedevi. Poi, poco dopo capii che era un modo tutto tuo di dare coraggio agli altri, a me in quel momento del mio lavoro di giornalista (tu credevi molto nel ruolo e nell’importanza dei mass-media) perché nel nostro discorso si intrecciarono inevitabilmente anche i riferimenti personali: «Vedi, don Tonino, anche a me è capitato…». Per te era un modo per non farci perdere la speranza, per renderci “protagonisti” e non spettatori.

Fu allora che compresi appieno il significato del coraggio: non avere paura di essere scomodi, non temere di essere minoranza o di essere perdenti, ma sicuri delle proprie azioni, quando “servono la verità”. E “servire la verità” era sempre l’invito con cui mi lasciavi, era il messaggio augurale che mi inviavi, era il segno di una missione che mi affidavi. Ricordo quando mi parlasti della parresia, un termine poco comune che racchiude il diritto-dovere di dire la verità, con franchezza, anche se questo vuol dire essere "scomodi” e costa fatica e sofferenza.

Mi hai insegnato il coraggio della denuncia per la ricerca del bene comune, dell’ascolto dei bisogni degli altri, dello stare dalla parte della gente, degli ultimi, ai quali tutti guardano con fastidio, con disagio. Era questa la “chiesa del grembiule” alla quale si ispira anche Papa Francesco: appena eletto, al suo primo discorso, mi ha subito ricordato te e sono stato preso dal desiderio di andargli a parlare di te. Francesco chiedeva la benedizione dei fedeli, tu chiedevi di darti coraggio. Eppure ne avevi da vendere! Amavi i poveri, amavi l’uomo.

Caro don Tonino, non sempre sono riuscito ad avere coraggio: l’odio, l’invidia, l’ipocrisia degli altri mi hanno procurato amarezze, incomprensioni, ostacoli in questo lavoro, con la tentazione di gettare la spugna. Ma il tuo insegnamento, quel “coraggio” mi tiene ancorato col cuore, prima che con la mente, al servizio dell’uomo. Mi dicevi: «devi dare tanto, per ricevere tanto». Non sempre è stato così. Ma non importa, chi dona non deve aspettarsi la gratitudine. Ma è difficile accattare l’ingratitudine. Meglio l’indifferenza o il silenzio.

Tu sei stato un rivoluzionario, un profeta del nostro tempo, un pescatore di anime e ci hai lasciato su quel porto di pescatori che hai tanto amato. Non sei stato compreso.

Oggi mi manca il tuo sorriso e la tua voce, la cerco e la trovo nei tuoi scritti, con quell’invito costante alla speranza. Tu vivi nel futuro della nostra speranza, dei nostri desideri.

Nella nostra società dell’incertezza, tu avevi una sola certezza: l’amore. E avevi con te sempre il sorriso dell’anima, contro la cattiveria del mondo. Sfidavi politici, amministratori e anche l’opinione pubblica conformista, perché volevi riscattarla dalla sudditanza, dalla sua inconsapevole servitù del bisogno. E lo facevi ogni giorno, difendendo gli albanesi, accogliendo i migranti e i poveri nella tua casa. Oggi avresti avuto l’ostilità della Lega che respinge i nostri fratelli che fuggono dalla guerra, dalle persecuzioni e dalla miseria, ma tace delle nuove forme di schiavismo legalizzato che colpiscono il mondo del lavoro, i giovani condannati ad un precariato a vita senza la dignità del lavoro e del riscatto sociale.

Caro don Tonino, quanto la celebrazione dei tuoi 25 anni dal dies natalis sono un fenomeno mediatico o ipocrita e consumistico e quanto fede autentica? Temo che confinandoti sugli altari, la gente voglia congelare i tuoi messaggi scomodi, il tuo invito all’ascolto, all’abbraccio, alla carezza. “In piedi i costruttori di pace!”, ma ne sono rimasti pochi e stanchi.

Tu sognavi di essere santo, come hai scritto nella lettera a coloro che si sentono falliti. Io non sogno di diventare santo, ma sogno una società più giusta e la fine della nostra “collocazione provvisoria”.

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Felice de Sanctis
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