Ed ora tocca alla Sanità, mentre all’orizzonte si intravede un autunno, che rischia di rivelarsi molto caldo. Dopo la vertenza della scuola, se ne affaccia un'altra sul fronte del pubblico impiego: quella dei medici, decisi a dare battaglia per ottenere un aumento dei loro stipendi superiore al 45 per cento.
I medici, però, non sono i soli a chiedere aumenti. Il «coro» comprende molta parte dei dipendenti pubblici: ministeri, enti locali, parastato, aziende autonome, magistrati, Università, enti di ricerca. Un esercito di 3 milioni di lavoratori, le cui richieste retributive ammontano complessivamente ad oltre 30mila miliardi, un livello che rischia di far saltare sia il progetto governativo di contenimento del debito pubblico, sia l'impegno a non superare il tetto dei 14mila miliardi per i contratti degli statali.
A scatenare la rincorsa salariale è stato il contratto della scuola che, partito con una previsione di spesa di 6-7mila miliardi in tre anni, alla fine verrà a costare, a quanto sembra, 10mila 770 miliardi o forse più (i sindacati stimano che «a regime» si raggiungerà addirittura la cifra di 16-17mila miliardi). La giustificazione di questi aumenti sta nel fatto che le retribuzioni degli insegnanti erano rimaste ferme da anni, provocando una progressiva perdita del loro potere d'acquisto. Il presidente del Consiglio De Mita, perciò, ha sottolineato più volte la doppia particolarità dell'eccezionalità dell'evento e della specificità del personale insegnante, oltre all'impegno di favorire una maggiore qualità e produttività della scuola. Ma i benefici economici sono stati estesi anche ai bidelli e agli impiegati di segreteria (in quanto dipendenti anch’essi del ministero della P. I.), i cui stipendi sarebbe stato più logico equiparare a quelli degli uscieri e impiegati dei ministeri e degli altri enti pubblici.
Di qui la protesta e la rincorsa salariale (che alcuni ritengono solo corporativa) sulla quale anche il governatore della Banca d'Italia, Ciampi, all'assemblea dell'Abi ha espresso le sue preoccupazioni per le possibili conseguenze con un'accelerazione dell'inflazione. In realtà, esiste una sperequazione delle retribuzioni nel pubblico impiego e soprattutto fra queste e il settore privato, come ha dimostrato anche il rapporto Carniti. Si spiega così la difficoltà dei sindacati confederali — in un momento di crisi della loro rappresentatività, che ha generato i Cobas — di rispondere all'invito del Governo a contenere le richieste salariali.
Con quali argomenti Cgil, Cisl e Uil possono affrontare la base? Il rischio è quello di perdere altri iscritti a favore degli autonomi. In questa situazione esiste anche una responsabilità: degli stessi sindacati, accusati di aver fatto in passato una politica egualitaristica, che ha portato all'appiattimento delle retribuzioni e a trascurare il criterio della professionalità.
Anche lo Stato non può affidarsi a semplici criteri di «egualità»: occorre valutare la specificità professionale, tenendo conto della produttività e responsabilità del lavoro. Così si spiega, al di là della semplice voglia di rincorsa salariale che pur esiste, il malessere del pubblico impiego, al quale non si può rimediare gonfiando ulteriormente l'indebitamento dello Stato verso i privati (con emissioni a catena di Bot, Cct, Btp, ecc.); né ricorrere ad un inasprimento della pressione fiscale che, in pratica si tradurrebbero, a breve, in una nuova richiesta di aumenti e in una ripresa dell’inflazione. E’ invece possibile una riduzione del fiscal drag che erode in maniera ormai insopportabile le retribuzioni della fascia medio-alta.
Sarebbe anche utile, come ha suggerito Michele Tito sul «Mondo», un «piano per il riordino delle cose dello Stato (cosa diversa dalla riforme istituzionali di cui si parla forse troppo); il riordino significa due cose: rendere i servizi capaci di efficienza e tracciare un confine netto tra i compiti, le prerogative e le responsabilità della pubblica amministrazione e il diritto-dovere di guida e indirizzo dei detentori del potere politico».
La riorganizzazione della pubblica amministrazione, verso l’efficienza dei servizi, passa, dunque, attraverso il criterio dell’aumento della produttività del settore (diminuita in Italia, mentre è cresciuta del 12% in Europa). Già negli anni Venti, Francesco Saverio Nitti riteneva, dopo la sua esperienza di governo, che per ottenere lavoro in maggiore quantità e di migliore qualità dai dipendenti statali, fosse necessario pagarli di più, riducendo, però, il loro numero. Invece, negli ultimi anni in Italia, come ha ricordato il ministro Cirino Pomicino, essi sono aumentati di 30mila unità l'anno, malgrado il blocco delle assunzioni.
E così i conti non tornano.
La Gazzetta del Mezzogiorno – 1ª pagina – 2.7.1988