Una lezione di vita dal Maestro Muti
15/01/2016
FELICE DE SANCTIS - Ironia, simpatia, cultura, intelligenza, eleganza, generosità, rigore, orgoglio meridionale e radici molfettesi, grande professionalità e umanità: si può riassumere così l’immagine di Riccardo Muti che emerge dall'intervista di Fabio Fazio alla trasmissione di RaiTre Che tempo che fa. Voglio aprire il nuovo anno volando alto senza planare, per questa volta, sulle miserie sempre uguali della politica locale, che vede i consiglieri del Pd sbranarsi a vicenda (vi rimandiamo all’articolo delle pagine interne) e sprofondare sempre più nella meschina caccia alle poltrone, offrendo ancora un’immagine negativa della città, dopo gli arresti e gli scandali dell’era Azzollini, facendoci vergognare di essere molfettesi. Noi che amiamo Molfetta, che lavoriamo disinteressatamente per vederla crescere e svilupparsi, per dare una speranza e un futuro ai giovani, ai nostri figli, vogliamo riscoprire l’orgoglio di essere molfettesi con un omaggio ad un grande personaggio della musica: Riccardo Muti. E l’occasione ci viene offerta proprio dal programma di Fazio. Il grande Maestro, molfettese doc, anche a smentire coloro che ripetono ancora come lui citi più Napoli (sua città di nascita, solo al momento del parto, per una scelta della madre napoletana) che la città pugliese dove è cresciuto, ha ripetuto per ben 3 volte il nome Molfetta e due volte l’aggettivo “molfettese”. I criticoni, che nella nostra città, tempio dell’invidia, non mancano mai, ora potranno essere soddisfatti. In realtà il Maestro Muti la sua Molfetta l’ha sempre portata nel cuore e, tra l’altro il suo accento lo conferma, come quando ha ricordato, nel corso dell’intervista, l’incontro con la regina Elisabetta alla Scala di Milano nel 2000, che, andò a trovarlo nel suo camerino «non perché ci fosse Riccardo Muti, ma perché era un gesto verso l’arte». Una lezione di stile, non come avviene in Italia dove, quando è presente un parlamentare in teatro, al termine del concerto, questi manda il segretario a dire al Maestro: «l’onorevole la sta aspettando». Bene, in quell’occasione il Maestro chiese come ci si dovesse rivolgere alla regina e gli fu consigliato: con il termine Ma’am, abbreviativo di Madam, la cui pronuncia «mem», si avvicina a quella di «mamma» nel dialetto molfettese. Perplesso, Muti replicò: «ma è una parola pugliese, anzi molfettese», spiegando a Fazio che, nel dialetto molfettese, c’è un’espressione di questo tipo: Medonne, ce si fatte, memme me (scritto come si pronuncia; ci perdoni il nostro apprezzato collaboratore e amico Marco Ignazio de Santis, cultore ed esperto del nostro dialetto, al quale non abbiamo avuto il tempo di chiedere una consulenza in merito). Così il Maestro si concentrò per pronunciare Ma’am in inglese e non in molfettese. Anche se poi, al momento dell’incontro, gli venne spontaneo avvertire la regina di fare attenzione ad un gradino del suo camerino, coperto da un tappeto, sul quale molti avevano già inciampato. God save the queen, Dio salvi la regina, sarebbe il caso di dire! Riccardo Muti ha ricordato Molfetta anche quando ha raccontato come le porte della musica gli si siano aperte allorché il padre Domenico, noto medico molfettese, gli comprò un violino (tutti studiavano musica in famiglia, dove c’era una cultura musicale: nonno melomane e padre tenore dilettante) «e, quindi, mi sono trovato con questo coso in mano… non ci ho mai creduto, poco alla volta è diventata la mia vita». In realtà, il padre, dopo le prime prove di Riccardo, ritenne che non solo il violino non facesse per lui, ma che non fosse proprio tagliato per la musica, confortato in questa sua impressione negativa dal maestro di musica del ragazzo, l’indimenticabile Aldo Gigante. Quando sembrava che lo strumento fosse destinato ad essere abbandonato in un ripostiglio, fu la madre a credere in lui e a consigliare al maestro di dargli fiducia e di provare ancora per un mese, prima della rinuncia. E la signora fu profetica, perché, qualche tempo dopo, il ragazzo eseguì un'aria del Barbiere di Siviglia, che si era adattato da alcuni spartiti, facilitandosene così l’esecuzione. E per Gigante fu la rivelazione di un talento. Il resto è storia nota. Altro ricordo di Molfetta è stato quello delle marce funebri, che il Maestro ascoltava da ragazzo. «Mio padre non voleva che facessi il musicista perché pensava che il massimo che potessi raggiungere – ha detto Muti a Fazio – era di fare il maestro di banda a Molfetta, che è una cosa pregevolissima, però una delle caratteristiche delle bande a Molfetta è suonare marce funebri». Insomma, una prospettiva non proprio esaltante. «Però, a qualcosa è servito – aggiunge il Maestro – perché la prima volta che ho sentito la marcia funebre dell’Eroica (sinfonia n. 3 di Beethoven, ndr) è stato a Molfetta il venerdì santo: qualcosa avrò imparato prima del tempo». Tra una battuta e l’altra, il Maestro Muti ci ha offerto, in modo ironico e simpatico, una lezione di vita, come quando ha parlato dell’invidia, in realtà, uno dei difetti più diffusi, in particolare a Molfetta, dove si è stati sempre amanti dei forestieri o dei molfettesi forestieri, quelli che hanno lasciato la città per affermarsi in Italia e all’estero. Qui l’invidia li avrebbe massacrati. Ammirevoli e condivisibili, perciò, le considerazioni sull’invidia altrui, che a Muti non ha mai interessato e per questo ha preferito, pur vivendo nel mondo della musica e amandolo, stare sempre fuori dal mondo dei musicisti, «non per alterigia, ma perché è meglio stare a parte». Nell’intervista a Fazio, è venuto fuori il personaggio simpatico che Muti è sempre stato, una volta dimesso il frac (anche qui, battuta simpatica, quando dopo un concerto, non avendo avuto il tempo di togliersi l’abito di scena, in un ristorante, gli fu chiesto dove fosse la toilette, avendolo scambiato per un maître). Il necessario rigore del podio offre l’impressione di una persona che sorrida poco. In verità, al Maestro è sempre piaciuto scherzare, anche in dialetto molfettese e raccontare spiritosamente aneddoti e barzellette agli amici. La grande generosità e l’altruismo di Muti sono emersi allorquando, parlando del suo master per giovani musicisti, che lo sta appassionando in questo periodo, ha precisato che lo fa volentieri, perché vuole trasferire ai giovani quello che lui ha imparato dai grandi Maestri italiani e dagli eccezionali interpreti delle opere che ha diretto, «perché – ha sottolineato, sempre con una battuta – non voglio portare questi segreti nell’altro mondo, perché lì trovo tutti quanti e ce ne saranno tanti meglio di me». E così l’intervista è andata simpaticamente avanti, di battuta in battuta, da quella sul principe Carlo che a Londra ritardò il suo ingresso in teatro per permettere che fosse riportato al Maestro il frac dimenticato in albergo, all’incredibile abbigliamento di certi contemporanei direttori d’orchestra (dalle casacche nere agli stivaloni luccicanti, dalla cinghia sotto il frac alle scarpe da montagna), dall’inusuale bis, poco toscaniniano, concesso nell’86 alla Scala dell’aria del Va’ pensiero del Nabucco di Verdi, che non piacque al presidente del Consiglio dell’epoca, Bettino Craxi, e riempì le prime pagine dei giornali. Un modo leggero per raccontare l’Italia di oggi «più visiva che uditiva», nella quale «c’è stato un calo terrificante dell’interesse verso la cultura» (e il Maestro ha accompagnato la sua affermazione con un vistoso gesto del braccio dall’alto in basso). Una gestualità che è un po’ una deformazione professionale, che ha accompagnato Muti in tutta l’intervista, dove i movimenti delle mani tradiscono la sua origine meridionale, ma sono efficaci a far comprendere il proprio pensiero. «Quello nei confronti della cultura – ha precisato il Maestro – non vuol essere un’accusa a questo o quel ministro, ma la constatazione di una tendenza generale alla perdita dei valori e perfino dell’identità». E qui, nuova battuta di spirito: «Dove andiamo? Mi stava scappando una parolaccia tutta meridionale…». Complimenti al Maestro Muti, che, come possono confermare quelli che lo conoscono da vicino, è stato tutto se stesso, rivelando una bella persona, lontana dalla falsa immagine stereotipata del personaggio un po’ misantropo o introverso, che appare sul podio, dove il rigore è d’obbligo e dove la professionalità prevale nel servizio esclusivo alla dea musica, perché, come egli stesso ha ricordato: «dietro le note, c’è l’infinito e noi non possiamo comprendere l’infinito». Una lezione di cultura, ma anche di vita. QUINDICI – 15.1.2016 © Riproduzione riservata
Felice de Sanctis
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