FELICE DE SANCTIS - Che cos’è la cultura di una nazione? Correntemente si crede, anche da parte di persone colte, che essa sia la cultura degli scienziati, dei politici, dei professori, dei letterati, dei cineasti ecc.: cioè che essa sia la cultura dell'intelligencija. Invece non è così. E non è neanche la cultura della classe dominante, che, appunto, attraverso la lotta di classe, cerca di imporla almeno formalmente. Non è infine neanche la cultura della classe dominata, cioè la cultura popolare degli operai e dei contadini. La cultura di una nazione è l'insieme di tutte queste culture di classe: è la media di esse. E sarebbe dunque astratta se non fosse riconoscibile - o, per dir meglio, visibile - nel vissuto e nell’esistenziale, e se non avesse di conseguenza una dimensione pratica. Per molti secoli, in Italia, queste culture sono stato distinguibili anche se storicamente unificate. Oggi - quasi di colpo, in una specie di Avvento - distinzione e unificazione storica hanno ceduto il posto a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere. A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere.
Sono le parole di un profeta laico, Pier Paolo Pasolini, il poeta, l’intellettuale «corsaro», come amava definirsi e la cui attualità viene riscoperta oggi a distanza di 40 anni dalla sua morte. Pasolini scrisse che l'Italia stava vivendo «un processo di adattamento alla propria degradazione», un processo che non è ancora concluso, ma in fase avanzata. Del resto, all’epoca, gli intellettuali erano anima della vita sociale e politica. Poi è arrivato il berlusconismo che ha spazzato via ogni ruolo degli intellettuali, illudendo «il popolo bue», i suoi elettori, quelli che, come lui sostiene, non hanno più della terza media, che la cultura fosse inutile, che «con la cultura non si mangia», come affermava il «superbo economista» Giulio Tremonti.
Oggi quella «cultura» di massa, viene addirittura superata con il «salvinismo», un fenomeno da baraccone, che cresce e illude ancora una volta il popolo bue che le ricette razziste della Lega Nord (non dimentichiamolo al Sud) siano la panacea per tutti i mali italiani: togli l’euro, caccia i migranti, armi per tutti, e via dicendo nel campionario dello sciocchezzaio, che diventa un pericolo in tempi di terrorismo, quando la paura annebbia la ragione.
E il nuovo pifferaio che scrive «il vangelo secondo Matteo (Renzi)» e lo propone alle folle adoranti dei nuovi politici, che appaiono peggiori di quelli rottamati. Chissà perché in politica, in certi casi, la speranza di un classe dirigente migliore, si traduce nel sempre peggio. E chi si discosta dal modello dominante, finisce per essere emarginato oppure additato come disfattista. Perciò, va messo all’indice, cominciando a diffamarlo pubblicamente, spargendo veleni e falsità nello stile fascista, anzi della propaganda nazista di Joseph Göbbels che invitata a ripetere le bugie 100, 1.000 volte, per farle diventare verità. Una teoria già inventata da Nerone.
E siamo costretti apparizioni «mariane» del miracolato di turno, al quale non sembra vero poter esternare un presunto talento nascosto, grazie all’esibizione nella televisione comunale, utile solo a soddisfare il proprio narcisismo, per ottenere l’applauso solo del cane di famiglia.
E nel «vangelo secondo Matteo», appaiono le parabole della ripresa economica (inesistente), delle migliaia di posti di lavoro (fittizi), mentre cresce la disoccupazione (reale) i giovani anche laureati languono ai margini e per farli rimpiangere di aver perduto anni a sacrificarsi sui libri, quando, poi, una volta laureati, sono costretti a non lamentarsi e a lavorare come commessi al supermercato o portalettere. Insomma, come popolo della terza media, osannato dal Berlusca, che ha trovato il degno erede a sinistra. Ma anche i giovani hanno le loro colpe: appaiono rassegnati a un destino economico di dipendenza da genitori e nonni, non sembrano più avere voglia di impegno civile (tranne rarissime eccezioni) e soprattutto voglia di ribellarsi.
Insomma, viviamo l’epoca del ritardo esistenziale collettivo, come giustamente osserva il Censis, un tempo in cui ci si accontenta del giorno dopo giorno, in una società dei resti (si vive sui resti del passato), mentre trionfa il soggettivismo, l’egoismo individuale, l’interesse particolare e non maturano valori collettivi e interessi comuni.
E la corruzione è diventata una regola, al punto da non meravigliarsi più di scoprirla anche dove sarebbe impensabile trovarla. La giustizia lenta e incerta non aiuta, il Paese annega in una burocrazia inefficiente ed elefantiaca, mentre il malcostume politico e sociale impera in un’Italia torchiata da una pressione fiscale che spreme i soliti noti e ignora i grandi evasori.
Così, mentre l’Europa fa passi avanti, l’Italia arretra o avanza dello zero virgola, più per meriti esterni, che propri. E la grande giostra continua.
Sono le amare considerazioni di un anno che si conclude e all’orizzonte non si scorgono prospettive migliori o di lungo periodo. Si vive per l’oggi, per perpetuare, nel migliore dei casi, per distruggere nel peggiore, l’esistente. Per impedire il cambiamento, ma per consolidare le posizioni esistenti. Il vecchio potere viene soppiantato dal nuovo potere che non lascia spazio al dissenso, alla scelta individuale, alla libertà. Vuole solo il gregge, più facile da governare. Molfetta è un esempio di questa politica del gregge ignorante e obbediente che deve seguire il pastore padre-padrone azzolliniano.
E chi prova a cambiare, viene paradossalmente accusato di immobilismo dalle pecore belanti a comando (e a libro paga), da noti dinosauri agitati e dalle donzelle mature e frustrate, invidiose dei successi altrui che dimostrano capacità a loro sconosciute o improbabili. E nella babele parolaia del nulla trasformato in sistema, perfino i successi altrui vengono propagandati come sconfitte. Gestire una città devastata dal malgoverno passato, dove perfino le delibere e le gare di appalto erano sbagliate (non sappiamo quanto inconsciamente o volutamente), come le vicende attuali stanno dimostrando, diventa un’impresa eroica. Basterebbe gestire l’ordinaria amministrazione, rimettendo le cose in ordine e sarebbe già un grosso risultato. Ma l’amministrazione di centrosinistra del sindaco Paola Natalicchio (vedi l’intervista nella pagine interne), con grandi sforzi ed enormi sacrifici, sta facendo di più, sfidando l’impopolarità che deriva dalla resistenza del lassismo imperante, per dare ai nostri figli un futuro e una città migliore e più vivibile.
Così chi vuole dare a Molfetta un porto non a rischio naturale e legale, viene additato (da chi difende solo i propri interessi e non quelli della comunità) come chi frena lo sviluppo, facendo dimenticare al popolo bue che la paralisi del porto è unicamente attribuibile a chi ha fatto pasticci e illegalità, ancora sotto indagine della magistratura. E potremmo continuare a lungo.
Aveva ragione Pasolini, le lucciole sono scomparse, i segnali dell’umana innocenza sono stati annientati dalla notte o dalla luce feroce dei riflettori del fascismo trionfante. Anche gli intellettuali non si sono accorti che le lucciole scompaiono dal panorama naturale, cacciate anche dall’abusivismo ambientale dilagante, scambiato come progresso (vedi l’edilizia a Molfetta). E in questo Natale triste, che si legge soprattutto sul volto della gente, dei giovani in particolare, speriamo che appaia una stella cometa della speranza, alla quale si aggrappino le persone buone e oneste che fanno il proprio dovere senza corrispettivi. Crediamo e sosteniamo il cambiamento, proviamo a mettere da parte il naturale pessimismo e a impegnarci tutti a dare spazio all’ottimismo della volontà e dell’agire per il bene comune. Ricostruiamo un ambiente sano e riportiamo le lucciole a brillare in una notte serena e non più cupa e malata.
Auguri a tutti!
QUINDICI – 15.12.15
© Riproduzione riservata
Felice de Sanctis