Francesco Padre, verità troppo scomode
15/11/2014
FELICE DE SANCTIS – L’uomo resta muto sulla banchina, lo sguardo perduto nell’orizzonte ad ascoltare la voce del mare, come nei «Malavoglia» di Verga: «Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto in mezzo ai faraglioni, perché il mare non ha paese nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare». E il mare dopo 20 anni ripete ancora una storia di morte, di uomini a bordo di un peschereccio, il Francesco Padre, colpito e affondato in una notte di guerra, trascinati per sempre nel fondo. Giovanni, Luigi, Saverio, Francesco e Mario con l’inseparabile cane Leone la notte fra il 3 e il 4 novembre 1994 erano a pesca a 20 km a sud-ovest di Budva nelle acque del Montenegro quando all’improvviso la barca viene colpita e subito si inabissa, senza dare tempo nemmeno di lanciare un Sos. Pezzi di legno, cassette di pesce, una scialuppa di salvataggio ancora chiusa: sono gli unici “reperti” galleggianti del peschereccio Francesco Padre che la mattina del 4 novembre del 1994 vengono avvistati da un aereo militare di ricognizione nelle acque del Montenegro, dove è in corso un’operazione militare, Sharp Guard, mentre infuria la guerra civile nell’ex Jugoslavia. Quegli uomini di mare, lavoratori instancabili in un mestiere sempre più difficile e rischioso, irrequieti, col pensiero sempre alle famiglie che attendono ansiose il loro ritorno. «Il mare non è stato mai amico dell’uomo. Tutt’al più è stato amico della, sua irrequietezza», le parole di Conrad racchiudono una grande verità, il carattere degli uomini di mare, il loro umore inquieto come le onde, la loro gioia fugace come il vento. Conoscevano il loro mestiere i 5 pescatori, sapevano quali erano i rischi, erano pronti a sfidare l’amico-nemico mare, ma non i proiettili delle armi da guerra. Sì, ad uccidere non è solo il mare. E proprio un anno prima, un altro marinaio Antonio Gentile, dimenticato dalla cronaca, fu ucciso da una motovedetta serbo-montenegrina. Quelli uomini sapevano come era diventata rischiosa la vita del marinaio per inseguire i pesci che non sanno leggere la carte nautiche perché si spostano da un confine all’altro, e magari prendere nella rete anche qualche mina vagante o morire per una raffica di mitra di un “ignoto” soldato, la cui identità resterà per sempre coperta dal segreto di Stato, ipocrisia per coprire errori e ingiustificate azioni di guerra. Quando l’uomo uccide l’uomo non ha attenuanti, non c’è giustificazione che tenga. E per nascondere la tragica verità del Francesco Padre l’uomo ha utilizzato tutti i mezzi leciti ed illeciti perché una verità scomoda per tanti, non venisse a galla, ma restasse sepolta con quei marinai in fondo al mare. Muri di gomma, depistaggi, perizie sbagliate, segreti militari, segreti di Stato, segreti Nato, superficialità umane e, ancora più gravi, accuse infamanti: tutto è stato funzionale ad allontanare la verità, sperando nell’oblio del tempo. Ecco perché il motopesca non poteva essere recuperato, ecco perché erano stati imposti il segreto di Stato, quello militare, quello giudiziario. E si è consumata così quella che “Quindici” definì per primo come l’Ustica di Molfetta, una tragedia simile a quella del DC9 dell’Itavia che nel 1980 da Bologna era diretto a Palermo, ma fu annientato in volo. La tragedia del Francesco Padre compie oggi 20 anni, come il giornale “Quindici” che compie 20 anni perché vide la luce un mese dopo l’affondamento e ne fece subito una battaglia contro la vergognosa verità giudiziaria che attribuiva l’esplosione a un carico di armi ed esplosivo, presenti sul peschereccio. Perizie frettolose, pressioni interne ed internazionali dovevano portare subito alla chiusura dell’inchiesta. E ancora oggi chi sapeva continua a tacere, ad opporsi alle rogatorie, a ostacolare la ricerca della verità. Non basta trincerarsi dietro il dramma della guerra per far dimenticare 5 uomini innocenti, 5 lavoratori onesti, 5 affettuosi padri di famiglia. Oggi che per ben due volte è stata riaperta l’inchiesta, ad opera di magistrati decisi, spinti dal dubbio e dall’ostinazione delle famiglie e di un collega coraggioso Gianni Lannes che ha sfidato anche i vertici militari, per dimostrare che fu un atto di guerra a cancellare il Francesco Padre, la storia può essere riscritta. Ma anche la verità giudiziaria va cambiata con la collaborazione del governo per evitare che si arrivi ad una nuova archiviazione, che potrebbe essere tombale. Non lo vogliono le famiglie, non lo vogliono i cittadini di Molfetta, non lo vuole la verità che attende di essere rivelata. Costi anche il prezzo di una causa agli Usa (che più volte hanno cercato di affossare la vicenda), davanti alla Corte di Giustizia dell’Aja. La bilancia oggi pende dalla parte del segreto e del mistero, mentre è troppo leggero il piatto della verità. Occorre l’impegno di tutti perché diventi più pesante e riequilibri una giustizia sbilanciata. Una vita umana, soprattutto innocente, non ha prezzo, non c’è segreto di Stato che tenga. Sulla storia del Francesco Padre è stato girato anche un cortometraggio dalla regista Donatella Altieri per «Disgressione cinema» di don Gino Samarelli, un sacerdote che si batte da tempo a fianco di Maria Pansini, figlia del comandante del peschereccio, perché la verità venga a galla e per ridare la dignità che meritano a onesti lavoratori del mare, traditi non da quel mare che amavano ma dagli uomini, che quel mare lo usavano contro la pace. E ci vengono in mente le parole che lo scrittore Hemingway dedica al mare: «Quelli che lo amano ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna... che concedeva o rifiutava grandi favori e se faceva cose strane e malvage era perché non poteva evitarle». Ma le cose strane e malvage oggi non è più il mare a farle, ma gli uomini. Non è una donna a tradirli, ma nemici senza volto, in una guerra dal contenuti oscuri e indecifrabili. E ancora oggi il Francesco Padre resta un mistero. QUINDICI – 15/11/2014 © Riproduzione riservata
Felice de Sanctis
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