FELICE DE SANCTIS
Ormai è generalmente conosciuta come Iniquitalia, la società che ha il compito della riscossione delle imposte degli italiani. Mai società fu più odiata dai contribuenti, non solo perché chi riscuote le tasse è sempre antipatico, ma perché, in molti casi, per il meccanismo perverso dei moltiplicatori di aggi e interessi, alla fine il cittadino, pur cosciente di essere tenuto al pagamento di un’imposta non versata o di un contributo previdenziale non pagato, ha l’impressione di essere derubato dallo Stato.
E’ il sistema di riscossione del debito che si attorciglia su se stesso: tra errori, notifiche sbagliate, interessi di mora, sequestri e beni ipotecati anche per somme non elevate, l’equità conclamata si perde per strada. Equitalia, società pubblica partecipata al 51% dall’Agenzia delle Entrate e dal 49% dall’Inps, si avvia verso la sua liquidazione. Almeno così ha promesso il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, aggiungendo anche la possibilità di un condono, che dovrebbe riportare, a suo parere, la pace tra il fisco e i contribuenti vessati. Il “condono” consisterebbe, in pratica, nella possibilità di pagare la somma dovuta senza interessi né sanzioni.
La nascita di Equitalia risale al 2006, quando il governo Prodi modificò il metodo di riscossione, a causa dell’inefficienza di un sistema gestito in precedenza in maniera disastrosa da ben 40 società private, in gran parte banche. Così tra il 2007 e il 2008, Equitalia è diventato il principale soggetto riscossore delle tasse a livello nazionale, anche per conto di Comuni e altre istituzioni pubbliche. Equitalia ha ricevuto fino al 2015 circa 1.000 miliardi di euro da riscuotere, di cui quasi 800 dall’Agenzia delle entrate, altri 150 dall’INPS e il resto da Comuni e altre istituzioni.
L’abolizione di questo ente percepito come vessatorio, anche se è riuscito, comunque, a recuperare debiti crescenti (con i metodi discutibili che sappiamo), che hanno raggiunto la consistente cifra record di 14,8 miliardi recuperati nel 2015, ha come finalità anche quello di fare cassa proprio attraverso il condono che il governo prevede possa far entrare circa 4 miliardi di euro, con un aumento immediato del gettito. A questo si aggiunge una previsione di rientro di capitali dall’estero di circa 2 miliardi: cifre non insignificanti per un governo che chiede all’Europa maggiore flessibilità portando il rapporto deficit/pil al 2,3, in più rispetto al 2,2% già faticosamente concesso dalla Ue, dopo l’1,8% fissato a maggio scorso. Quello 0,1% in più vale circa 1,6 miliardi della manovra, che, se la Ue non dovesse accordare, il governo avrebbe necessità di trovare da qualche parte per non far saltare la manovra finanziaria.
Il condono, però, viene considerato come un incentivo agli evasori cronici, che puntano sempre ad ottenere un benefico colpo di spugna. Così, alla fine, le minori entrate finiscono per colpire la piccola evasione di sopravvivenza, di fronte ad una pressione fiscale eccessiva, rispetto al grande evasore che riesce sempre a farla franca. Insomma, chi non paga nulla, finisce col far gravare il peso del fisco sugli onesti che pagano di più. E’ sempre stato così in Italia e finora nessuno è riuscito ad invertire la tendenza. Pagare tutti per pagare meno, una regola elementare, non trova casa da noi.
Del resto le cifre dell’evasione sono preoccupanti: ogni anno mancano all’appello 109 miliardi di imposte, che rappresentano in media il 24% dei tributi dovuti. A questi vanno aggiunti 12,4 miliardi che lo Stato non riesce ad incassare per errori di fatto e impossibilità da parte dei contribuenti di far fronte ai debiti. Col condono saranno cancellate le sanzioni che arrivano al 200%, raddoppiando e triplicando l’imposta e gli interessi di mora.
Quale sarà il futuro del recupero dei debiti non si sa: chi provvederà a farlo? Direttamente l’Agenzia delle Entrate? E con quali modalità meno vessatorie? La speranza è che in futuro ci siano regole certe, non sovrapposizioni come è avvenuto finora a tutto danno del contribuente, soprattutto quando alcuni debiti sono prescritti, ma il malcapitato non lo sa e paga ugualmente somme non dovute.
Le storie che raccontiamo sono più o meno simili, hanno in comune proprio il mancato pagamento di imposte dovute, a causa delle difficoltà dell’azienda per la crisi economica generale o del proprio mercato e alla necessità di far fronte alle spese necessarie a mandare avanti l’esercizio commerciale, a pagare i fornitori e i dipendenti. Certo lo Stato non deve passare in secondo piano, ma quando un contribuente ha l’acqua alla gola, è costretto a scegliere una scala di priorità, nella quali lo Stato, visto sempre come nemico e vessatore, si trova all’ultimo posto.
La Gazzetta del Mezzogiorno 19/10/16 Primo Piano
Felice de Sanctis