Marchionne, padre del job act di Renzi. Rebaudengo ripercorre la svolta alla Fiat nel 2010
Regole in fabbrica. Il libro di un protagonista. Angeletti: dicemmo all’azienda torinese che gli operai erano disposti a lavorare con le stesse regole di Francia e Germania. Bonanni: Anche l’Italietta diventò un Paese normale, con un’operazione semplice. Decisivo fu l’investimento in robotica
14/10/2015

 FELICE DE SANCTIS

BARI - Gino Giugni il papà dello Statuto dei Lavoratori in un suo intervento del 1987 sosteneva che l’esperienza Fiat non aveva mai avuto efficacia di paradigma nelle relazioni industriali italiane. L’incidenza dei fenomeni sindacali che riguardavano il gruppo torinese era altissima «nell’arena politica, come valore simbolico», secondo Giugni, ma alquanto modesta nei suoi riflessi pratici.
Questo era vero all’epoca, ma l’autorevole docente di diritto del lavoro, non poteva prevedere che trent’anni dopo sullo scenario politico-sindacale italiano, sarebbero apparsi due personaggi che avrebbero sconvolto le relazioni industriali: Marchionne e Renzi. Il primo con una svolta a 360 gradi ha fatto cadere tabù intoccabili, anche con la collaborazione dei sindacati Cisl (segretario Bonanni) e Uil (Angeletti), il secondo ha trasformato l’esperienza Fiat o meglio Fca, in azione di governo, con la riforma del mercato del lavoro. La citazione di Giugni è di Giuseppe Berta nell’introduzione del libro di “Nuove regole in fabbrica, dal contratto Fiat alle nuove relazioni industriali” (ed. Il Mulino) scritto da Paolo Rebaudengo, (nella foto con Marchionne, di spalla) protagonista in qualità di responsabile delle relazioni industriali del gruppo torinese, proprio delle trattative sindacali che portarono all’accordo rivoluzionario del 16 giugno 2010 per la fabbrica di Pomigliano.
Ed è proprio tale ruolo “politico” dell’amministratore delegato della Fiat Marchionne nell’anticipare il premier Renzi che ha messo in evidenza il direttore della “Gazzetta del Mezzogiorno” Giuseppe De Tomaso nell’avviare il dibattito promosso dall’Università di Bari e dall’Ordine degli avvocati in collaborazione con Amendolito & associati, Intoo, Agi, Aidp, Gi Group sul tema delle relazioni industriali dopo il caso Fiat. De Tomaso, infatti, ha ricordato come, con il manager canadese, il Lingotto abbia lasciato lo Stato e abbracciato il mercato, senza attendere più il plauso della politica, attraverso relazioni particolari. Insomma, la casa torinese è entrata in piena globalizzazione attuando la trasformazione dall’operaio massa al lavoratore responsabile sul modello tedesco con il regista Rebaudengo e il centravanti Marchionne contro Landini (Fiom). Ma se non ci fosse stato il manager canadese, Renzi avrebbe potuto fare quello che ha fatto nella legislazione del lavoro?
Secondo l’autore del libro il merito della svolta va diviso col sindacato (Cisl e Uil, perché Cgil e Fiom, com’è noto erano contrari) rappresentato da Bonanni e Angeletti, i quali hanno capito che bisognava cambiare, per affrontare la nuova realtà in modo diverso e il cambiamento delle condizioni di lavoro, ha permesso all’azienda di fare investimenti.
E Raffaele Bonanni ha confermato tale inversione di tendenza. Avvenne che anche l’Italietta diventò un Paese normale, con un’operazione semplicissima. Non potendo più fare affidamento sui soldi dello Stato, la Fiat, per stare sul mercato, aveva necessità di fare investimenti considerevoli e costosi in robotica. E questo richiedeva l’uso dei macchinari con un ciclo di 24 ore, altrimenti non reggeva la concorrenza. Capito questo, il sindacato, ha ricordato Bonanni ha permesso turni di lavoro a ciclo continuo per permettere l’utilizzo intensivo degli impianti col risultato di portare a casa perfino il 100% dello straordinario il sabato, facendo aumentare sensibilmente gli stipendi dei lavoratori. Insomma, i due sindacati seppero cogliere la situazione storica del momento, facendo accordi che già esistevano in altre parti del mondo. Gli ha fatto eco l’altro ex leader sindacale dell’epoca Luigi Angeletti che ha sottolineato l’importanza delle relazioni industriali non solo per fissare le regole dei rapporti tra imprese e lavoratori e le relative retribuzioni, ma anche come strategia per far uscire il Paese dalla crisi. Questo è stato possibile perché il sindacato è riuscito a far capire all’azienda che poteva produrre la Panda a Pomigliano, anche se costava di più che altrove, ma era possibile farlo responsabilizzando i lavoratori, ottenendo l’ottimizzazione delle risorse e investendo nello stabilimento. Il sindacato, secondo Angeletti disse alla Fiat, che gli operai erano disposti a lavorare con le stesse regole della Germania e della Francia, purché l’azienda creasse nuovi posti di lavoro, in una situazione di forte disoccupazione. Insomma, ha prevalso una logica di modernità e di cambiamento, perché ci si è resi conto che nell’economia attuale non sono più i produttori a decidere cosa e quanto produrre, bensì i consumatori che dettano la legge del mercato e quindi si deve produrre ciò che è richiesto e che si vende. Così con l’accordo, come ha riconosciuto Rebaudengo, l’azienda ha avuto un quadro di riferimento certo che le ha consentito di investire.
In precedenza erano intervenuti anche Vito Sandro Leccese, ordinario di diritto del lavoro all’Università di Bari, Giovanni Stefanì, presidente dell’Ordine degli avvocati, Angelo Salvatori, senior advisor Intoo e Francesco Amendolito avvocato e docente di diritto del lavoro.

La Gazzetta del Mezzogiorno 14.10.2015

Felice de Sanctis
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