Angelantoni: con il termodinamico energia elettrica anche senza sole
RINNOVABILI/ Parla il presidente di Anest che ha sottoscritto un protocollo d’intesa con Legambiente
20/06/2014

FELICE DE SANCTIS

Nella frontiera delle energie rinnovabili, oltre ai più noti sistemi del fotovoltaico e dell’eolico, esiste anche un sistema innovativo e tecnologicamente avanzato rappresentato dal solare termodinamico che consente di produrre energia anche in assenza del sole, permettendo anche di controllare la produzione di energia elettrica da immettere in rete.
Ne abbiamo parlato con l’ing. Gianluigi Angelantoni, presidente di Anest (Associazione nazionale energia solare termodinamica) che ha sottoscritto recentemente un protocollo d’intesa con Legambiente per integrare i progetti del territorio e coinvolgere i cittadini.

Ing. Angelantoni nessuno (o pochi) conoscono la tecnologia solare termodinamica: quale differenza rispetto ad altre fonti rinnovabili? E perché dovrebbe essere preferito al fotovoltaico? Quanto dura un impianto?
«Ci sono rinnovabili che funzionano 24 ore al giorno e che necessitano di materie come biomasse o biogas e altre che non possono funzionare 24 ore al giorno, come fotovoltaico ed eolico. Il vantaggio del termodinamico di nuova generazione (Chiamato in gergo tecnico CSP - Concentrated Solar Power) è di produrre energia elettrica 24 ore al giorno, anche quando non c’è il sole. È possibile infatti fare accumulo termico con un fluido (sali fusi) scaldato dal sole e utilizzarlo in mancanza dello stesso (di notte o in presenza di nuvole) per produrre il vapore che muove le turbine. La tecnologia italiana del CSP, sviluppata e brevettata in ENEA con il professor Rubbia (premio Nobel) utilizza i sali fusi come fluido, che sono dei fertilizzanti naturali (usati in agricoltura). Per cui a basso impatto ambientale. Il CSP è alternativo al fotovoltaico, da preferire quando si voglia energia “on demand” o nei picchi di richiesta, con possibilità anche di utilizzare il calore residuo per altri usi. Un impianto solare termodinamico dura in genere oltre i 30 anni e tutto il materiale può essere riciclato (vetro, acciaio, inox etc)».
Da chi è formata l’associazione Anest? Quale è la sua politica e quali sono i suoi obiettivi?
«Anest è formata da 24 aziende, appartenenti alla filiera italiana del CSP, oltre a qualche azienda straniera con base in Italia. Gli obiettivi sono quelli di promuovere la conoscenza del solare termodinamico in Italia, l’innovazione della tecnologia, l’accettazione sociale nei territori coinvolti e i collegamenti europei e internazionali attraverso l’Associazione internazionale Estela, cui ANEST appartiene».
Quali sono i valori dell’investimento complessivo per le imprese italiane nel solare termodinamico, quali i costi di un singolo impianto e quale è il tempo previsto per ammortizzare l’investimento? Questa tecnologia potrebbe attrarre investimenti esteri? Quali possono essere i ritorni e i benefici economici e occupazionali per un territorio che accoglie un impianto di questo tipo?
«Un impianto tipico da 50 MW (come gli impianti spagnoli) costa in media circa 300 milioni di euro. In accordo alla legge di incentivazione in vigore (2,5 milioni di mq di superficie captante o specchi in tutta Italia) potranno essere realizzati non più di 200-300 MW, vitali però per accedere gli investimenti esteri (già pronti) ma soprattutto per far fare alle imprese italiane della filiera quell’esperienza necessaria a poter poi competere sui grandi mercati internazionali (nella sola Arabia Saudita sono previsti investimenti di oltre 109 miliardi di dollari, di cui la metà circa nel solo CSP!). 300 MW di impianti sommerebbero investimenti per circa 2 miliardi di euro, di cui il 60% spesi nel territorio con la creazione di 6.000 posti di lavoro per almeno 3 anni (costruzione) e di altri 600 per almeno 25 anni (gestione e manutenzione degli impianti). In questi numeri non sono compresi gli occupati delle aziende manifatturiere e di ingegneria della filiera».
Sono previsti incentivi come per il fotovoltaico? Se sì, a quanto ammontano e a chi vanno? E non c’è il pericolo, per analogia col fotovoltaico, di una pura speculazione?
«Gli incentivi sono pochi e limitati, anche se di interesse per far partire la tecnologia tutta italiana (partita nei laboratori ENEA con il prof. Rubbia). Quando matura, basteranno come detto 200-300 MW, finiranno automaticamente. Non c’è il pericolo del fotovoltaico poiché in questo caso esiste già una filiera italiana, pronta e preparata».
Sono previsti impianti in Puglia o nelle zone limitrofe, in quali aree andrebbero a insediarsi, e quanta parte del fabbisogno energetico potrebbero soddisfare? Quali ostacoli burocratici stanno incontrando le aziende e come superarli?
Avete pensato a come potrebbero reagire le popolazioni a questa nuova proposta di occupazione del territorio, dopo che la Puglia e in generale il sud Italia ha già “fatto il pieno” con l’eolico e il fotovoltaico? E in particolare cosa sta facendo ANEST e le aziende per venire incontro al territorio (ad esempio con ipotesi compensative)?
«Per ora non ci sono progetti di larga scala in Puglia ma qualche piccolo sì (1-2 MW). Questi impianti sono di interesse in quanto possono essere facilmente ibridizzati con biomasse o biogas, qualora ci siano le giuste condizioni nel territorio. ANEST non si occupa di compensazioni, che sono a carico di chi fa o propone l’impianto. Tuttavia ANEST ha fatto un accordo con Legambiente affinché chi propone un impianto faccia con Legambiente una verifica preventiva del progetto affinché sia minimizzato l’impatto ambientale, modificando l’impianto ove necessario e proponendo le opere di mitigazione e anche di compensazione».
Quali sono le dimensioni di questi impianti? Quali sono i costi per l’ambiente e quale impatto col terreno e il territorio in genere? Facendo un’analogia con il fotovoltaico, questi impianti andranno a sottrarre altro terreno all’agricoltura oppure sono state studiate localizzazioni particolari? Quali sono i problemi e i costi dello smaltimento del materiale a fine vita dell’impianto?
«Le aree richieste sono equivalenti al fotovoltaico, cioè 2-3 ettari per ogni MW installato (dipende da quanto accumulo termico si voglia fare). La tecnologia più diffusa, quella a specchi parabolici, non ha praticamente impatto sul territorio: gli specchi sono alti 6-7 metri e, visti dal cielo, sembrano un lago. Non sottraggono spazio all’agricoltura e al pascolo in quanto, a differenza del fotovoltaico, non coprono il terreno. Le file di specchi devono stare a circa 15-18 metri l’uno dall’altro per non ombreggiarsi quando il sole è basso sull’orizzonte. Questo consente la quasi totale agibilità degli spazi intermedi (una centrale da 50 MW copre solo l’1,5% del terreno adibito alla stessa). Tecnologie adeguate risolvono anche il consumo di acqua, mentre si possono evitare i plinti di cemento utilizzando delle speciali viti metalliche che vengono inserite nel terreno per 1-2 metri e sulle quali fissare le strutture. Le viti sono recuperabili a fine vita, lasciando il terreno come inizialmente trovato. Come detto, tutti i materiali sono recuperabili e riciclabili, anzi, gli stessi sono un valore che il proprietario sarà interessato a recuperare (inox, vetro etc)».

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 La Gazzetta del Mezzogiorno – 20.6.2014

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