Chi controlla i controllori?
La buona scuola, super presidi
18/03/2015

Felice de Sanctis

È un problema che attraversa i secoli e la storia della democrazia: quis custodiet ipsos custodes?, chi controlla i controllori?, la famosa frase dell’autore latino Giovenale, nella sua Satira più lunga (127 d.C.), castiga la rilassatezza dei costumi che aveva cancellato la sobrietà dei Romani nel dilagare di sprechi e lussi, attribuita anche ai vizi e all’immoralità delle donne (discriminazione di genere ante litteram). In realtà, già Platone nella Repubblica (390 a.C.) affida a Socrate il compito di delineare il modello ideale di società con le quattro classi sociali dell’epoca, contadini, artigiani, guerrieri e governanti che dovrebbero ispirare il modello di città utopica col fine ultimo del benessere della società e non di quello di singola classe. E, anche in questo progetto perfetto, frutto di elaborazione filosofica, si insinua il dubbio: «chi proteggerà i governanti dai governati?». Il riferimento a queste due citazioni, modernizzato dalla cultura anglosassone nel who watches the watchmen del celebre fumetto di Alan Moore e Dave Gibbons dove watchmen sta per controllori, viene inevitabilmente in mente quando si pensa all’ultima (per ora) riforma della scuola, che attribuisce ai presidi maggiori poteri discrezionali di quelli che avevano prima, quando pomposamente li si definì «dirigenti scolastici» per dare loro una patina di imprenditorialità. Come se un semplice decreto potesse trasformare un uomo di scuola in un manager: e i risultati si sono visti (per non parlare dell’ultima trovata degli istituti onnicomprensivi dove un direttore di scuola materna può diventare dirigente di liceo), al punto che è stata necessaria una nuova riforma. L’ultima, visto che ogni governo ne propone una propria, quasi come fiore all’occhiello, così che ogni ministro, da Gentile alla Moratti e perfino alla Gelmini (che fa rima con Giannini), ha l’ambizione di perpetuare, non importa come, il proprio nome nella storia della scuola? Ora siamo al dirigente che sceglie liberamente gli insegnanti, che ha il potere di premiare, soprattutto economicamente quelli che, a suo «insindacabile» giudizio (quanto lavoro prevedibile per i Tar, ndr), sono i migliori. Insomma, l’ultima versione 2.0 del controllore, senza controllo. Certo, l’obiettivo della riforma, oltre che sburocratizzare (e Dio sa quanto ce ne sia bisogno!) un comparto della pubblica amministrazione, è anche quello di restituire dignità al corpo docente, puntando sulla meritocrazia, parola più citata da tutti i governi degli ultimi 20 anni e rimasta solo un’espressione verbale. Ma siamo sicuri che in un Paese che fonda la sua meritocrazia sulla raccomandazione, sulla bustarella e sulla clientela, il dirigente scolastico saprà resistere alle lusinghe, alle amicizie, alle pressioni politiche e perfino all’italica lussuria? Il paradosso di questa riforma sta soprattutto nel fatto che si cita ad esempio il modello privato, dimenticando, però, una differenza sostanziale: l’imprenditore sceglie e decide rischiando soldi propri e non denaro pubblico. Se sbaglia, ci rimette del proprio, non dei soldi di Pantalone, soprattutto perché non basta una legge a fare di un professore un manager. Ammenoché non si voglia introdurre il criterio di responsabilità per cui, come avviene nel privato (non nel pubblico dove il manager viene gratificato economicamente anche per i propri errori), chi sbaglia venga licenziato. Perché per il preside che sbaglia o che abusa del proprio potere, non è prevista alcuna sanzione drastica? Per timore che nessuno voglia più assumersi la responsabilità di guidare un istituto? L’efficienza dello Stato si misura anche sulla responsabilità e la valutazione dei presidi e della scuola non può continuare sulla base del maggior numero di promozioni, falsa attestazione di efficienza, quando è noto che i docenti vengono spinti a promuovere per elevare il quoziente scolastico. Che senso ha l’autovalutazione in un sistema italiano che non fa della deontologia e dell’etica un criterio morale basato sulla rettitudine dell’individuo? Anzi, come la storia insegna, la nostra società premia e ammira il furbo, deridendo l’onesto. E, sempre per citare i latini, ci piace ricordare quella frase di Publio Siro nelle Sententiae: «Paucorum improbitas est multorum calamitas», la disonestà di pochi è di danno a molti. Il rischio di questo aumento di potere ai presidi, è quello di creare una nuova casta, che, come ogni aggregazione di potere, tende a fare i propri interessi. In un Paese caratterizzato dall’occhio benevolo di eventuali controllori o Authority che dir si voglia, che hanno portato a frequenti incidenti di percorso, anche con questa riforma, toccherà alla magistratura il compito di punire gli «incidenti di percorso» che potranno verificarsi. Forse, come ammonisce il personaggio di un noto telefilm statunitense, è importante always watch the watchers, guardare sempre ci guarda.
La Gazzetta del Mezzogiorno – 18.3.2015 – 1ª pagina

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