Un ciclone di nome Marchionne
30/01/2011

Il «modello Marchionne» della Fiat rischia di diventare l’oggetto del desiderio degli imprenditori italiani, un progetto pilota delle nuove relazioni industriali e di una nuova concezione del ruolo del sindacato all’interno delle aziende.
È quello che teme anche la stessa Confindustria preoccupata della riduzione parallela del proprio ruolo, dopo la scelta dell’amministratore delegato del Lingotto di non aderire all’organizzazione degli imprenditori.

L’accordo di Pomigliano che in cambio del rientro dalla cassa integrazione e di 30 euro lordi di aumenti mensili, riduce le pause di lavoro, il pagamento dei giorni di malattia, la possibilità di scioperare contro gli accordi ed elimina la rappresentanza sindacale minoritaria che non sottoscrive il contratto, sta facendo discutere il mondo del lavoro e quello politico, creando spaccature e divisioni in tutti i settori. Ci sono di mezzo i posti di lavoro e i redditi di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie.
Tutto questo è, in parte, conseguenza della cosiddetta globalizzazione del mercato del lavoro, che vede oggi i Paesi emergenti (Cina, India e Brasile) produrre a costi del lavoro più bassi. Inoltre per gli imprenditori italiani si è aperta la possibilità di delocalizzare la produzione in Paesi dell’area balcanica o africana, dove la busta paga è più leggera e si riesce ad essere competitivi giocando sul fattore lavoro.
Ed è proprio la minaccia di delocalizzare le produzioni Fiat e quindi chiudere le fabbriche in Italia ad aver spinto tutti i sindacati confederali dei metalmeccanici, tranne la Fiom-Cgil, a sottoscrivere un’intesa dettata dallo stato di necessità. Del resto può costringere gli imprenditori a non far emigrare la produzione all’estero. Le non regole della globalizzazione comportano anche questo.
La flessibilità nasce, perciò, come risposta alla globalizzazione e porta alla crisi del modello fordista e taylorista della crescita illimitata che puntava sulla tecnologia per aumentare la produttività: il fordismo sanciva il primato della fabbrica sul mercato, dell'offerta sulla domanda. Ford diceva che "tutto ciò che si produce si vende". Oggi non è più così. La geografia del nuovo lavoro non può più essere letta con i parametri del passato, perché occorre regolare l’orario settimanale di fronte ad esigenze produttive temporanee, tecnologiche e organizzative, anche se, in molti casi, sono proprio molti imprenditori italiani che da un lato rivendicano la flessibilità e dall’altro restano vincolati alla logica dell’orario rigido, anche se in parte improduttivo.
Ma la società globale costringe tutti ad essere pratici e ad individuare modelli di diritti e di tutela diversi da quelli del passato. Del resto è indispensabile essere pragmatici: nessuno può imporre regole ai cinesi sul mercato del lavoro, ecco perché occorre trovare soluzioni che coniughino la concorrenza e la competitività con la difesa dei diritti dei lavoratori. Conciliare la necessità di regole efficaci e pluralismo sindacale, non è facile. Questa sarà la sfida dei prossimi anni in Italia.
Del resto una strategia di conservazione non può più funzionare di fronte a mutamenti radicali imposti dal mercato, col quale, anche se può non piacere, occorre fare i conti, se non si vuole finire ai margini. Ecco perché occorre stare dentro il cambiamento, la rigidità della Fiom e la risposta dello sciopero non sono più efficaci e rischiano di danneggiare solo i lavoratori. Stare fuori oggi, significa lascare la partita all’avversario: è come giocare un incontro di calcio senza il portiere. Il massimalismo nelle condizioni attuali è perdente, crea solo divisione tra i sindacati a vantaggio della parte più forte, il datore di lavoro. Certo, occorre battersi per migliorare le proprie condizioni di lavoro, ma occorre anche salvaguardare l’azienda, altrimenti non resta più nulla, come dice anche Fassino. È vero che ci si condanna a situazioni peggiorative di lavoro (l’accordo di Pomigliano è oggettivamente peggiorativo per i lavoratori e il sindacato), ma l’errore è stato anche quello di non aver accettato il confronto con solide controproposte (magari con contratti di solidarietà, garantiti da aumenti di produttività per salvare lavoratori e imprese) e non aver voluto accettare un dato di fatto come l’assenteismo nelle fabbriche. Anche lo stesso presidente della Regione Nichi Vendola che chiede, giustamente, il superamento di vecchie formule in politica, si irrigidisce poi sul fronte della ricerca di nuovi modelli di contrattazione.
Piuttosto andrebbero chieste maggiori garanzie sugli investimenti della Fiat: quali e dove? Dei 20 miliardi promessi, solo 2 saranno diretti a Pomigliano e Mirafiori, in quale direzione andranno gli altri 18?
In tutta questa situazione c’è stato un grande assente: il governo che, preso da altri problemi, ha trascurato la programmazione di una politica industriale per rilanciare l’economia reale con grandi investimenti nelle infrastrutture e nell’innovazione tecnologica. Tra l’altro l’aumento della ricchezza prodotta e distribuita equamente è l’unica vera base per ridurre il debito pubblico e per mantenere la stabilità sociale. Non è dividendo il sindacato che si possono ottenere risultati positivi, anzi si rischia la conflittualità permanente. In questa situazione è anche difficile convincere gli investitori esteri a puntare sull’Italia. Una volta la crescita economica era la strada per favorire la democrazia politica, oggi non è più così: la Cina è un esempio emblematico. Non si può restare alla finestra, sostenendo che la crisi è colpa della globalizzazione e che tutti i Paesi industrializzati ne soffrono: un alibi che non regge. Gli altri sono in difficoltà, ma non hanno un debito pubblico elevato e soprattutto un’evasione fiscale spaventosa, non un’iniqua distribuzione della ricchezza come in Italia.
Aumentare i salari oggi, è oggettivamente impossibile per le aziende, ecco perché occorre un’azione del governo per ridurre il carico fiscale e abbassare il costo della vita, proprio perché gli stipendi sono insufficienti ad affrontare le necessità quotidiane delle famiglie. Se sacrifici si devono chiedere, vanno distribuiti equamente, anche fra i manager delle aziende e fra i politici: non possono essere sempre i più deboli a pagare il prezzo della crisi, altrimenti si rischia il conflitto sociale. Vanno eliminati subito per tutti sprechi e privilegi.
E poi occorre investire nel futuro: formazione, innovazione, ricerca, tecnologia. I Paesi emergenti puntano sull’educazione e sulla formazione professionale nell’università e nella ricerca, mentre da noi si tagliano proprio queste spese. Il rischio è un declino irreversibile.
 
La Gazzetta del Mezzogiorno 3.1.2011
Felice de Sanctis
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