Questa volta, per le nostre riflessioni sulla città, prendiamo in prestito il titolo Fantasticheria di una bella novella di Giovanni Verga della raccolta "Vita nei campi" che racconta di una gentildonna la quale passando in treno da Aci-Trezza ne ha una bellissima impressione: «Vorrei starci un mese laggiù!». Poi quando finalmente decide di andare nella località siciliana, vi rimane appena 48 ore.
Ecco, questo è quello che potrebbe accadere e accade a chi, emigrante o turista, arriva a Molfetta. Ne ha sùbito un’impressione positiva: una città dinamica, con grande traffico (caotico, «ma pur sempre sintomo di vitalità e benessere»), con tante gru, una zona industriale in crescita, il grande outlet della moda del Fashion District, un bellissimo mare, alcuni monumenti, un’eccellente tradizione culinaria e le gente contenta di vivere in quest’oasi di felicità. Ci sono perfino tanti cittadini che hanno acquistato casa a Bisceglie e, incuranti dei prezzi più alti di Molfetta, preferiscono incredibilmente vendere quella casa comprata (con un mutuo) a soli 10 chilometri di distanza, per indebitarsi ulteriormente, pur di tornare nel «paese delle meraviglie».
Tutti sperano così di partecipare alla grande festa dell’edilizia, di abitare nelle nuove case che crescono con tanti giardini intorno, con scuole, servizi e tutti i comfort, in una nuova frontiera dove tutti trovano lavoro e contribuiscono alla crescita economica e sociale della città, sentendosi protagonisti del cambiamento. Un progresso che non conosce criminalità, che si alimenta di una cultura politica del servizio, della solidarietà, della priorità dell’interesse collettivo mettendo da parte il proprio particolare per dedicarsi ai cittadini. Nasce così anche il progetto del nuovo grande porto commerciale destinato a diventare simbolo di un modello di sviluppo da esportare per la sua capacità di creare lavoro e ricchezza da quella grande risorsa che la natura ci ha dato: il mare.
La «città ideale» raffigurata nel celebre e misterioso dipinto quattrocentesco (conservato nel Palazzo Ducale di Urbino), simbolo universalmente noto del classicismo e della perfezione formale raggiunta nell'architettura e nell'urbanistica rinascimentale attribuito alla scuola di Piero della Francesca o secondo recenti ricerche a Leon Battista Alberti, in realtà, altro non era che una profetica immagine di quello che sarebbe stata Molfetta, con il naturale aggiornamento urbanistico legato alle tecniche moderne rappresentate proprio in quelle costruzioni che vanno sorgendo nella zona 167, in via Berlinguer e nelle altre zone di espansione edilizia, dove si materializza il concetto di insediamento urbano ideato secondo un progetto urbanistico razionale, che segue un metodo scientifico.
Un rinascimento promesso nelle campagne elettorali che ha spinto la gente ad andare a votare in massa per coloro che sarebbero stati gli artefici di questo progetto, i più amati dai cittadini, per le loro indubbie qualità amministrative, ma anche economiche e culturali.
Il progetto, per la sua originalità e la sua valenza, pubblicizzato in tutto il Paese, spinge tanti urbanisti, ingegneri, architetti, ma anche cittadini curiosi, turisti affascinati dalle città d’arte, a visitare questa realtà locale straordinaria, ma complessa da sfuggire perfino all’osservazione di quella piccola parte della stampa locale che non si accorge dell’Eden, non coglie lo straordinario progetto di lungimiranti amministratori comunali, ma prefigura scenari apocalittici sul futuro della città.
Nascerebbero così, nella fantasia di qualche cronista distratto le cronache di abusivismi edilizi, con l’assurdo sequestro di decine di palazzine in costruzione, di amministratori presunti corrotti, di prezzi da rapina degli appartamenti, di false cooperative (sequestrate anch’esse) dove si presume ci siano responsabilità dei presidenti, di micro criminalità diffusa in crescita soprattutto sul fronte degli scippi e dei furti, complice anche una legge sull’indulto che ha anticipato la libertà per molti pregiudicati. Stesso discorso sulla disoccupazione, esistente soltanto sulle pagine di qualche giornale, che si permette perfino di raccontare le storie personali dei propri redattori, laureati eccellenti, costretti ad emigrare al Nord, anche per non accettare improbabili logiche clientelari impossibili nella «città ideale».
Ma il visitatore capitato per caso in città o l’emigrante che ritorna come turista al paese dopo tanti anni di lavoro all’estero non si fermano più di 48 ore come la signora del racconto di Verga. Come mai? Sono appagati dalla città ideale e non vogliono rischiare di innamorarsene col rischio di contrarre quel «mal di Molfetta» che potrebbe spingerli ad acquistare ai modici prezzi praticati dagli imprenditori edili locali una di quelle meravigliose case in costruzione e rimanere qui per sempre?
Oppure scappano via, dopo che si sono accorti che la «città ideale» esiste solo nelle fantasie del precedente sindaco e nelle parole di quello attuale, complice anche una «certa stampa» (come la definisce il sindaco) libera, che ha il coraggio di raccontare la verità, pagando anche prezzi alti e ricevendo insulti dai talebani locali, per questa scelta?
In fondo, tolto il duomo, un Pulo abbandonato a se stesso e alla distruzione dei vandali e qualche monumento, un po’ di belle tradizioni pasquali, cosa offre di più Molfetta? Se l’è chiesto un turista deluso precipitatosi nella «città ideale» della quale aveva sentito parlare e dalla quale voleva tornare con una interessante documentazione fotografica da mostrare agli amici.
Chi ama questa città, sa quante occasioni perdute ci sono state in passato non per realizzare un impossibile modello ideale, ma per rendere quest’antico borgo più a dimensione d’uomo e vorrebbe che il futuro riservasse vere prospettive di sviluppo fuori da quell’orrida edilizia, spesso solo speculativa, che l’attanaglia e da un becero clientelismo diffuso che la uccide.
Ma ci auguriamo che non sia troppo tardi. Altrimenti, ci restano solo le «fantasticherie».
Quindici - 15/03/2007
Felice de Sanctis