di Felice de Sanctis
«Addio dunque, terra natìa, isola triste, antica madre amata ma non abbastanza perché una voce potente d’oltre mare non strappi i tuoi figli dal tuo grembo, incitandoli a disertare, come aquilotti, il nido materno, la roccia solitaria».
Sono parole di Anania in “Cenere” della straordinaria Grazia Deledda, che in poche righe raccontano il dramma dell’emigrazione. Dopo gli anni lontani dell’emigrazione meridionale verso le Americhe, quando partivano «’e bastimenti pe’ mmare assai luntane…», come narrava in musica un’antica canzone napoletana, oggi i giovani sono tornati a partire con i treni non più verso lontani continenti, ma verso il Nord Italia. Ma sono treni senza ritorno. Molti di essi hanno nel cuore l’amarezza del distacco e in tasca un biglietto di sola andata. Negli ultimi tre anni – come ci dicono statistiche per difetto (perché è difficile quantificare un fenomeno che non passa per nessun ufficio pubblico) – avrebbero lasciato il Mezzogiorno mediamente 75mila persone, come se una grande città del Sud, come Barletta, fosse quasi completamente svuotata.
E se nell’Italia post unitaria il dilemma esistenziale era sintetizzato nella frase “o brigante o emigrante”, oggi basta sostituire alla parola “brigante” quella di “disoccupato” per ritrovarci a registrare lo stesso fenomeno, al punto che il Sud sembra aver innestato la marcia indietro, come se il tempo andasse a ritroso. E sono le statistiche a confermarlo.
Basta anche un piccolo campione come quello della redazione di un giornale come “Quindici” per capire come il fenomeno sia esteso e rappresenti un atto d’accusa per un’intera classe politica. Infatti, la nostra inchiesta sulla “fuga dei cervelli”, l’emigrazione intellettuale, nasce proprio dalla constatazione che, nel giro di 4-5 anni, ben sette redattori del giornale siano stati costretti a scegliere la strada del Centro-Nord per trovare lavoro, e altri si accingono a farlo. E si tratta di personale qualificato, di ragazzi laureati col massimo dei voti, in possesso di master e titoli. Infatti, a partire sono sempre i migliori.
E’ il cosiddetto “brain drain”, un flusso migratorio di laureati e professionisti: non trascinano più una valigia di cartone chiusa con lo spago, non indossano abiti sdruciti, ma hanno un moderno trolley e una valigetta col computer. Ma, come i loro antenati, con la tristezza nel cuore.
Le testimonianze di questi giovani giornalisti che raccontano la propria esperienza e le proprie sensazioni rappresenta un atto di accusa alla classe dirigente, perché il fenomeno è vastissimo (considerando in proporzione la nostra piccola microcomunità redazionale): l’emigrazione, eufemisticamente definita “mobilità”, è l’indice significativo della situazione economica di un territorio. Se poi si considera che ad emigrare è anche una consistente fetta di manodopera (carpentieri, muratori, fabbri, ecc.), l’atto di accusa diviene ancora più pesante. Quasi in ogni famiglia esiste un caso di parente emigrato, fino al paradosso di chi, pur avendo una propria impresa, spinge i figli, con la morte nel cuore, ad andare oltreoceano per cercare lavoro.
E se l’emigrazione degli anni Quaranta e Cinquanta, anche se dolorosa, ha contribuito al rilancio del Mezzogiorno, con le rimesse inviate alle famiglie, oggi ci troviamo di fronte a un fenomeno opposto: a inviare i soldi ai figli sono i genitori, per aiutarli nel fitto di casa e nel vitto, perché il costo della vita al Nord non può essere affrontato con il solo stipendio.
Accanto a questi “coraggiosi”, ci sono poi tanti giovani pur diplomati e laureati, che preferiscono rimanere nella loro città, dove possono godere della solidarietà familiare, fonte di beni affettivi e materiali.
All’inizio degli anni ‘90 una ricerca sociologica sui giovani del Sud arrivava a queste conclusioni: “I giovani del Mezzogiorno indicano l’abbandono del luogo d’origine come un segno di sconfitta, un’ultima ratio prima di darsi per vinti. Molti sono disposti ad accettare condizioni di disagio e di precarietà, pur di non mettersi sulla strada incerta dell’emigrazione. L’idea che altrove si possano trovare migliori condizioni di vita e maggiori opportunità di lavoro sembra per molti dei giovani intervistati un’idea ormai obsoleta” (A. Cavalli, “I giovani del Mezzogiorno”, Il Mulino). Oggi che il fenomeno migratorio è ripreso, non si può non farne una duplice lettura: 1) la gravità della crisi economica è più forte del legame con la terra, anche di fronte all’impossibilità delle famiglie a far fronte al sostentamento di giovani senza lavoro; 2) il rifiuto di barattare la propria dignità per ottenere un lavoro che spetta di diritto e per il quale occorre sempre più ricorrere alla cosiddetta raccomandazione politica, come dimostra la recente inchiesta dell’Espresso sulle assunzioni nelle Poste.
In passato sono stati i poveri ad alimentare la cultura della raccomandazione “per necessità”, facendo prosperare intere classi politiche che basavano il loro consenso elettorale sui “favori” elargiti. Poi è arrivato il “vento di Tangentopoli” che sembrava aver spazzato via la prima Repubblica e tutte le sue corruzioni. Un’illusione durata poco. Oggi, nella cosiddetta seconda Repubblica, il fenomeno si è riprodotto in misura ancora maggiore e devastante, con un personale politico di second’ordine (i portaborse dei notabili di un tempo e i bidelli dei vecchi partiti dissolti), desideroso solo di gestire clientele e prebende di ogni tipo; gente senza titolo, né mestiere che non ha trovato di meglio da fare che vivere (bene) dalla politica, magari anche arricchendosi.
Questo fenomeno ha determinato nella gente e nella cosiddetta società civile un atteggiamento di passività, di rassegnazione, di indifferenza che ha portato a subire una situazione degenerata finché le risorse economiche lo hanno permesso. Ora che la situazione si è incancrenita, si vedono i figli partire, se non vogliono rassegnarsi ad un posto di commesso nella zona Asi o nella Città della Moda (tra l’altro a prezzo della svendita della dignità a qualche “maneggione” della politica locale), comincia a registrarsi una qualche reazione e ribellione alle false promesse ai ridicoli proclami dei migliaia di posti di lavoro nella zona industriale (commessi e operai) o al cosiddetto “sviluppo assistito”. Chi racconta queste chiacchiere o non conosce il territorio e la sua forza lavoro (già Salvemini parlava di “proletariato intellettuale meridionale”) con titoli di studio non spendibili, oppure è in malafede e ci rappresenta indegnamente.
Mentre i nostri giovani migliori vanno via, la cronaca registra, purtroppo, episodi di malcostume che ripropongono prepotentemente la questione morale, di fronte alla quale chi governa dovrebbe assumere le proprie responsabilità. Non c’è segno più grave della decadenza di una città che quella di uccidere le speranze e i sogni dei giovani, espellendoli con un biglietto di sola andata. Così si distrugge il futuro.
Quindici - 15.9.2005