Felice de Sanctis
Dalla festa alla tragedia. Sono passati appena due giorni nella zona industriale di Molfetta, un’area in grande espansione con centinaia di nuovi posti di lavoro (anche se in gran parte precari), dove la morte non sembrava trovare posto.
Invece, dopo la grande festa di sabato sera per l’apertura di un nuovo shopping center, ieri a duecento metri di distanza, la tragedia della Truck Center ha riportato l’orologio della vita sulle lancette della morte.
Sono ancora recenti il ricordo e la ferita degli operai morti nell’acciaieria Thyssenkrupp a Torino, in quel Nord industriale che ci sembra lontano, che ieri in una cittadina tranquilla del profondo Sud, Molfetta, che da qualche anno sta vivendo una sorta di «miracolo economico» (più per le aziende, che per i lavoratori e l’economia complessiva della città), la tragedia si è ripetuta. Come si ripete ogni giorno, un morto ogni 7 ore, in quest’Italia delle morti bianche, con il triste primato di un milione di incidenti l’anno. Ma quando a morire sono operai del Sud, il dramma brucia di più sulla pelle.
E invece, accade. E sulla sicurezza non c’è divario Nord-Sud: è la vera emergenza nazionale, anche se sulla questione esiste un silenzio assordante. Si liquida il più delle volte come «tragica fatalità», ma forse si dovrebbe parlare di «superficialità» o ancora meglio di «trascuratezza». Si muore alla stessa maniera, forse per le stesse cause, in una società dove sembrava che gli operai fossero scomparsi e, dove, invece, sono le tragedie a ricordarci che esistono ancora.
Ma nel terzo millennio non si può morire di lavoro come nell’Ottocento o nel Novecento. Non basta dire che le leggi ci sono, occorre applicarle, o meglio controllare che vengano applicate, anche se questo costa in termini economici. Ma la vita di un uomo vale molto di più di ogni logica di «ottimizzazione» dei costi aziendali.
È assurdo: il lavoro oggi uccide più della guerra e dopo i bei discorsi, si proclama uno sciopero (in Puglia appena di 2 ore e a Molfetta solo di 4) per mettersi la coscienza a posto.
Ma le statistiche non registrano le decine di pendolari che perdono la vita in incidenti per andare al lavoro e non conteggiano tutte le morti di coloro che per lavoro guidano un automezzo (autisti, rappresentanti, professionisti) e non vengono classificati nemmeno i decessi per malattie professionali sul luogo di lavoro. Sono tutte incerte, fanno parte di quella fatalità o casualità che tacita le nostre coscienze in nome della produttività e della competitività, dove ad essere sconfitti sono gli uomini, pedine della grande scacchiera della globalizzazione.
E così accade che un cronista di Molfetta che si sta recando in auto al giornale, riceva una telefonata del direttore che gli dice di tornare indietro perché nella sua città sono morti 4 operai. Così, comincia la corsa a due passi da casa, per arrivare nella zona industriale, alla ricerca di un’azienda quasi sconosciuta, in una zona non meglio definita di questa grande prateria di aziende. Ma sono le sirene delle ambulanze a guidarci verso il luogo della tragedia.
È buio, solo i fari delle tv illuminano la zona, dove sono parcheggiate centinaia di auto, come nella festa dell’altra sera, ma questa volta sono i mezzi delle forze dell’ordine, le ambulanze, ma anche tantissime vetture di curiosi, di chi, ancora incredulo, vuole capire il dramma, ma anche di chi vive la tragedia come spettacolo.
Ci facciamo strada tra decine di persone, tra una selva di cronisti e telecamere. Una grande inquietudine ci assale, man mano che ci avviciniamo e incontriamo donne in lacrime, ancora incerte sulla sorte dei loro cari. È l’autocisterna verde nella sua imponenza, con il robottino metallico disarmato sul tetto e la botola aperta sulla tragica tomba dei quattro operai, a spiegare già la tragedia.
Ma solo i corpi degli operai coperti da candidi teli, che lasciano scoperti solo gli stivali impolverati, raccontano il tragico epilogo di una gara di fratellanza e umana solidarietà, pagata col prezzo più alto. E il cronista rischia di farsi travolgere dall’emozione quando nota, nel buio della sera, una donna, anch’essa vestita di bianco, seduta sul terreno, che piange fuori del recinto dell’azienda, respinta da «ragioni di sicurezza», sola con il suo dolore, mentre oltre lo steccato di cemento, il suo uomo ha cessato di vivere. No, non si può morire di lavoro. Non si può vedere la morte così, a due passi da casa, dove ieri c’era la festa.
La Gazzetta del Mezzogiorno - 1ª pag. - 5.3.2008