Tragedie infinite, colpe definite
Perché accadono gli infortuni sul lavoro
16/04/2007 09:17:00
FELICE DE SANCTIS Morire di lavoro è una delle maggiori dannazioni che possano toccare ad un uomo. E’ inaccettabile morire per la necessità di portare a casa il frutto del proprio lavoro utile al sostentamento della famiglia. Morire per un lavoro che non è a rischio, è ancora più drammatico. Eppure di lavoro si continua a morire, come dimostra la cronaca di questi giorni e come, soprattutto dimostrano le statistiche che parlano di una media di oltre 3 «morti bianche» al giorno, un vero bollettino di guerra. L’attenzione dei media è concentrata su un fenomeno sociale e umano che ha richiamato anche l’intervento del presidente della Repubblica, Napolitano, per chiedere maggiori norme di sicurezza e di prevenzione. In realtà il fenomeno degli incidenti sul lavoro ha subito negli ultimi anni una progressiva riduzione come si rileva dai dati dell’Inail: nel 2006 si sono verificati 935.500 incidenti con un calo dello 0,5% rispetto al 2005 (che aveva fatto registrare 936.956 denunce) e dell’8,6% rispetto al 2001 (1.023.379). Ad una consistente flessione in agricoltura (-4,2%) fa riscontro un calo meno significativo nell’industria (-2,6%) e una crescita del 2% nei servizi. A livello territoriale, il calo più accentuato si riscontra nel Mezzogiorno (-1%) che nel resto del paese. Nel corso dell’anno scorso gli incidenti mortali sono stati 1.250. Il settore in cui si sono verificati il numero maggiore di incidenti mortali è l’industria in cui il numero dei decessi sul lavoro è cresciuto dal 594 del 2005 ai 610 del 2006. Seguono i servizi (515) e l’agricoltura (125). E’ la Lombardia ad aver denunciato il maggior numero di infortuni mortali (188) seguita da Emilia Romagna (138) e Lazio (113). L’Italia in questa materia ha la maglia nera in Europa, soprattutto per quanto riguarda il risarcimento: tra il 2000 e il 2007 gli infortunati sul lavoro hanno ricevuto il 20% in meno di quanto dovrebbero: ad esempio, l’amputazione di una mano che prima del 2000 corrispondeva al 70% di invalidità, essendo cambiati i parametri di attribuzione delle percentuali di invalidità e quindi le tabelle, oggi vale il 55%. A tutto ciò si aggiunge un numero, calcolato intorno alle 800 morti all’anno, a causa di malattie professionali «sfuggite» alle statistiche degli ultimi cinque anni. Un altro dato significativo che occorre conoscere prima di analizzare i motivi che portano a queste tragedie: la metà degli infortuni riguarda la fascia di lavoratori che va dai 17 ai 34 anni. E in molti casi si tratta di lavori temporanei, l’innovazione più significativa e più discussa degli ultimi anni che ha raggiunto una percentuale del 9,1% dell’occupazione. Per alcuni è stata una risposta alla disoccupazione, per altri la porta di ingresso al mondo del lavoro o, per le donne, in particolare, la possibilità di scegliere di lavorare coniugando un percorso professionale con esigenze personali. Per tutti, comunque, si tratta di un aumento della precarizzazione del lavoro richiesta dalle esigenze produttive e da una «moderna» (come impropriamente la definisce qualcuno) filosofia del lavoro (più funzionale al datore di lavoro che al dipendente). La battaglia sulla sicurezza e soprattutto sulla prevenzione, perciò, è una battaglia di civiltà a oltre un secolo di distanza dalla prima legge che obbligava all’assicurazione sul lavoro che risale al 1898. La tutela della salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro rappresentano la misura del grado di avanzamento civile, economico e perfino morale di un Paese. Ecco perché la lotta al lavoro sommerso col potenziamento delle ispezioni e dei controlli per combattere anche l’evasione fiscale rientra anch’esso nella logica della sicurezza e nella tutela della salute. E gli ispettori del lavoro devono fare la loro parte. Tra l’altro nel nostro Paese non ha ancora preso piede una cultura del lavoro tesa a valorizzare il capitale umano che - malgrado ciò che pensano alcuni imprenditori - rappresenta il vero fattore strategico per rendere il lavoro più competitivo. Sicuramente i motivi degli infortuni sono diversi da quelli del passato quando tecnologie imperfette e imperizia dei lavoratori provocavano molte più «morti bianche» di oggi. Ma il mercato globale chiede oggi sempre di più al lavoratore, meno forza lavoro e più tecnologia per ridurre i costi. Nella ricerca dei fattori responsabili delle tragedie sul lavoro non va trascurato anche quello imposto da una vita moderna che ci impone ritmi sempre più convulsi anche nel tempo libero. Facciamo l’esempio dell’agricoltura per analizzare uno di questi fattori. I giovani che ancora lavorano in questo settore, per rispondere ad un’esigenza di vita «moderna» che impone orari sempre più lunghi al divertimento notturno, hanno progressivamente ridotto il tempo dedicato al riposo. Se nel week-end si è tirato tardi la sera, la ripresa della settimana lavorativa, per esigenze produttive di questa particolare attività, comporta un inizio alle prime ore del mattino. Quale «soglia di attenzione» si può pretendere da un giovane che è stato a ballare in discoteca fino a tardi con la ragazza e alle 5 del mattino deve essere a bordo del trattore per lavorare nei campi? Ecco che l’incidente è sempre in agguato. Se a questa situazione si aggiungono i ritmi di lavoro sempre più stringenti, la miscela diventa esplosiva e ci si può giocare la vita. Tragedia infinite, ma colpe definite, discutere non serve a molto se non si sceglie la strada della prevenzione, tenendo conto anche dei fenomeni sociali e in questo, la collaborazione fra datore di lavoro e dipendente, è vitale. La Gazzetta del Mezzogiorno – 1ª pagina – 16.4.2007
Felice de Sanctis
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