È il nuovo status symbol degli anni Novanta. Inseguito da molti, desiderato da troppi, corteggiato da tutti. Ora lo hanno scoperto anche i manager, che sono pronti a scambiarlo perfino con i loro ingaggi, miliardari. In una società in cui sono in crisi i valori tradizionali, è diventato il nuovo valore.
E’ il tempo libero il nuovo oggetto del desiderio dell'uomo moderno. Finita l’epoca degli yuppies del successo ad ogni costo, che si misurava solo in termini economici, avanza la stagione della riscoperta della vita privata. Diventerà un incentivo alla produttività, sostituendo il denaro nella scala dei desideri? O una sorta di fringe benefit dell’immediato futuro? E’ presto per dirlo, ma crescono i segnali in tal senso.
A far da battistrada sono, come sempre, gli Stati Uniti, terra d’origine di manager e yuppies. Di lì arrivano le prime avvisaglie: sono sempre più numerosi coloro i quali considerano in pericolo la stabilità del proprio incarico, in un clima diffuso di incertezze. Sarà colpa dell’epoca di transizione che stiamo attraversando, ma alcune cose appaiono sicure: cambiano lo stile del comando, il percorso da compiere per fare carriera, le regole per aumentare e conservare il potere, i meccanismi della gratificazione, anche economica. Non è più la gerarchia a determinare la crescita professionale, bensì una grande capacità di leadership.
Lo conferma anche l’autorevole settimanale americano «Business week» che sostiene il tramonto della sicura figura dell’Organizationman, per far posto al migrant manager o al free lance professional. Complice di questo processo è la nuova rivoluzione culturale della qualità, che mette in crisi le tradizionali organizzazioni aziendali. Un guru come Kenneth Blanchard ha affermato in un recente simposio a San Francisco che per raggiungere la «qualità» è necessaria una «globalità di soddisfazione per i manager e di un forte bisogno di premiare la vita privata». Tra i principali motivi per cui i «programmi di qualità» falliscono ci sono, oltre alla carenza di leadership, l’assenza di una «cultura del noi», di uno spirito del team, di gruppo, e soprattutto la «mancanza di bilanciamento tra vita professionale e privata».
Povero yuppie, che triste destino: da rampante instancabile scalatore dei vertici economici degli anni Ottanta, a soggetto di analisi psicoanalitiche. A complicargli la vita poi è arrivato anche lo «spuma-virus», definito la «sindrome dello yuppie», che provoca un senso di stanchezza perenne, uno stato di depressione e disturbi nel sonno.
Questo virus spugnoso l'abbiamo già importato dagli
Stati Uniti. E’ arrivato da noi con la rapidità di un jet: sono già 400mila gli italiani che dopo le ferie vanno dal medico perchè si sentono stanchi, nervosi e irritabili più di prima. Dormono poco e male, avvertono sempre un senso di sonnolenza, dimenticano oggetti e impegni, hanno difficoltà a concentrarsi e sono perseguitati da un cerchio alla testa. In genere vengono classificati come depressi, ma in realtà, sembra, che si tratti di soggetti affetti proprio dal virus spugnoso, che non è mortale, ma si trascina per anni tra miglioramenti e ricadute. Il loro numero è in crescita, tanto che hanno già costituito un’associazione nazionale «per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa sindrome», che colpisce persone giovani e iperattive, una volta capaci di fare cento cose in un solo giorno e ora ridotte quasi a vegetare, col rischio di essere considerate scansafatiche o simulatori di malattie.
Ecco spiegata la tendenza a rivalutare il privato. Altro non è che la riscoperta dell’uomo, dopo la grande ubriacatura tecnologica degli anni Ottanta, che aveva creato l’illusione di poterlo sostituire con il computer. Il «capitale umano» torna ad essere il perno dell’organizzazione aziendale, «una risorsa - come sostiene il prof. Mario Deaglio nel suo recente libro “La nuova borghesia e la sfida del capitalismo" - assai meno facilmente accumulabile e riproducibile del capitale finanziario, ed anche assai difficilmente programmabile».
In questo contesto assurge a valore perfino l’ozio, non più considerato il padre dei vizi, bensì «fattore di creatività» e come tale rivendicato dai manager americani. Sembrerebbe un paradosso, ma in realtà un top manager con molto tempo libero - dicono in Usa - è un dirigente in grado di rendere molto di più per la stessa azienda in cui lavora, esprimendo al meglio la propria creatività. Il manager, insomma, è visto come una specie di artista con una solida conoscenza della tecnica.
Non si tratta di nobilitare l’accidia, uno dei sette peccati capitali, quell’ignavia condannata all’inferno dal Poeta, bensì di ritrovare quell’aegritudo che già sant’Agostino, in un dialogo immaginario del Petrarca, definiva «malattia moderna»: un’analisi interiore, che può divenire il carattere della condizione intellettuale, quella ricerca e mediazione che sono indispensabili alla creatività. È insomma l’otium dei latini.
Forse aveva ragione Kafka: «L’ozio è il principio di tutti i vizi, il coronamento di tutte le virtù».
La Gazzetta del Mezzogiorno – cultura – 31.10.1991
Felice de Sanctis