dal nostro inviato
ALTAMURA - La leonessa di Puglia ruggisce ancora, anzi il suo ruggito si è trasformato in urlo possente, quell’urlo dei dinosauri che hanno calpestato questa terra milioni di anni fa e che ora riemergono dal passato con le loro impronte maestose. Sembra quasi di sentirlo quell’urlo fermandosi per qualche minuto nel silenzio della Murgia, trasportato dal vento che arriva dalla preistoria e che aleggia qui dove dominano lo spazio e l’aria «che sa di sale ma non di mare» direbbe Raffaele Nigro, dove riscopri il piacere dei sensi ascoltando la voce della natura, i profumi della terra e l’immensità dell’orizzonte senza confini dai colori cangianti man mano che giri lo sguardo intorno, carezzando i campi di grano come i biondi capelli di una fanciulla, pregustando il caldo sapore di quel pane di Altamura, conosciuto ormai in tutto il mondo. Comincia da qui, dalla terra, dalla cultura contadina, da quel pane che recentemente ha incantato gli irlandesi, questo viaggio nell’economia di un paese di pastori che ha saputo crescere e prosperare trasformando una dannazione della terra arida e pietrosa in un’opportunità di sviluppo. «Mi chiederai come ha fatto questa gente a scavare ed allineare tanta pietra - scrive Tommaso Fiore -. Io penso che la cosa avrebbe spaventato un popolo di giganti. Questa è la Murgia più aspra e più sassosa, ... non ci voleva meno della laboriosità di un popolo di formiche...». E il popolo di formiche, che in anni di paziente attesa e lavoro, ha accumulato esperienza e capacità professionali, oggi si ritrova catapultato nel villaggio globale, dove l’antico pastorello che ieri moriva di solitudine nella transumanza, oggi si muove con l’auto di grossa cilindrata, orgoglioso di un progresso e di un benessere conquistato e consolidato. Il pane simbolo di una città L’agricoltura qui convive con l’industria, ma il simbolo di una città amata da Federico II che volle costruire una sua stupenda cattedrale, resta quel pane fatto di semola di grano duro, unico al mondo e irripetibile, anche se nel mondo oggi, grazie alla tecnologia è possibile riprodurlo simile all’originale. Centomila ettari di superficie agricola misura il territorio dell’Alta Murgia, per questa posizione strategica, sia rispetto al mare che alle montagne, l’altipiano murgiano è interessato da un clima particolare: accentuata ventilazione, estati piuttosto secche e inverni moderatamente rigidi; condizioni che determinano l’alternarsi di due stagioni, primavera e autunno, particolarmente favorevoli alla coltivazione del frumento. A questo si aggiungono altre caratteristiche climatico-pedologiche, come la natura carsica e la presenza di una ricca e saporosa vegetazione spontanea, che conferiscono alle principali varietà di frumento duro che si coltivano su questo territorio (simeto, appulo, colosseo e arcangelo: le varietà previste dal discipilinare di produzione del pane di Altamura Dop) delle particolari caratteristiche chimico-fisiche che lo rendono unico. Un frumento di eccellenza, quindi, dal quale si ottiene la «semola rimacinata di grano duro», particolarmente indicata per la panificazione e la produzione di prodotti da forno e la «semola di estrazione» che rappresenta una materia prima di gran lunga superiore alle tradizionali semole di grano duro impiegate nella pastificazione industriale, come ci spiega il prof. Michele Saponaro, Coordinatore della Durum Italia, azienda impegnata in un programma di informazione-divulgazione (e successiva commercializzazione) della «semola rimacinata di grano duro» nei Paesi dell’Unione europea, nell’ambito di azioni mirate a coniugare insieme il meglio della tradizione agroalimentare murgiana della filiera del frumento e innovazione. Altamura, oltre ad essere «Città del pane», è anche il secondo distretto industriale per la produzione delle semole di grano duro, in relazione alla quantità di grano molito e al fatturato. Il primo distretto nazionale per la produzione di frumento duro e i prodotti da esso derivati è il territorio di Foggia e del Tavoliere. Ma se si prende in considerazione la produzione delle sole «semole rimacinate», Altamura diventa il primo polo nazionale, con la presenza di 12 impianti industriali in grado di accogliere e trasformare quotidianamente circa 20.000 quintali di grano duro, cui si affianca la produzione di un pane che ha raggiunto nel tempo grande notorietà e notevole diffusione in diverse regioni italiane. Attualmente, infatti, sono ben 39 le aziende dedite alla panificazione attive nella città (il 50% a conduzione familiare), con un numero di quasi 200 addetti, in grado tutte insieme di sfornare ogni giorno 600 quintali di un prodotto che solo nella misura del 20% è destinato al mercato interno, per un volume d’affari complessivo intorno ai 370 miliardi, a cui se ne aggiungono ulteriori 150 assicurati dagli altri prodotti da forno. La necessità di tutelare un bene così prezioso, dal punto di vista nutrizionale ed economico, ma anche culturale, ha portato i panificatori altamurani a costituirsi, sia pure parzialmente, in un «Consorzio per la tutela del pane di Altamura» (Cpa) il cui principale obiettivo, di fronte a tutti i problemi posti dalla commercializzazione a larga scala, è quello di ottenere la Dop, cioè la denominazione di origine protetta prevista dal Regolamento Cee 2081 del 1992. «Questa vocazione produttiva nel settore della molitura del frumento duro - aggiunge Saponaro -, Altamura la presentava già nel ’600, quando erano attivi ben 26 impianti. Voglio ricordare, inoltre, che il primo impianto a vapore della Puglia è nato proprio ad Altamura nel 1877. Si tratta del Molino Mininni, che oggi è un impianto industriale di medio-grandi dimensioni e che, insieme al Molino Capriati & Loiudice, altra significativa realtà industriale del territorio, ha dato vita, nel settembre del 2000, alla Durum Italia». Attualmente le semole rimacinate vengono commercializzate oltre che nel Mezzogiorno, anche nei grandi panifici del Nord Italia, negli ipermercati e nelle grandi catene di distribuzione, anche perché c’è una domanda crescente di pane di grano duro legata ad alcune peculiarità salutistiche del Pane di Altamura, come la conservazione più lunga, la presenza di fibre e proteine (è nutriente e non fa ingrassare). Già Orazio nelle «Satire» cantava le lodi di questo pane: «...l’acqua, la cosa più comune, qui la vendono; ma il pane è buono veramente, tanto che il passeggero scaltro suole farne provvista per il viaggio...». I mulini ad alta tecnologia Il pane, materia antica e nobile dell’antica civiltà contadina, sopravvissuta a tutte le mode e alle innovazioni alimentari, oggi si prende la rivincita e diventa l’oggetto del desiderio non solo di ogni regione italiana, ma anche di molti Paesi europei, dove la richiesta è crescente: oltre agli irlandesi, che cominceranno a produrre il loro pane tipo Altamura, ci sono i tedeschi, che hanno ospitato in un workshop una delegazione altamurana per imparare tecniche e segreti di questo prodotto, i giapponesi, pronti a copiare anche il pane, ma anche romeni, albanesi, cecoslovacchi e altri popoli dell’est europeo. Perfino dall’Egitto è arrivato un imprenditore interessato a conoscere le tecniche di realizzazione del pane per importarle nel suo Paese. Nasce di qui un’altra fiorente attività economica di Altamura legata al pane: la produzione di mulini ad alta tecnologia, realizzati in pezzi separati che possono essere montati in loco. E’ questo un vero business che sta incontrando l’interesse di molti paesi che inviano delegazioni ad Altamura per apprendere la tecnica di realizzazione del prodotto. Certo, la realizzazione del pane di Altamura Dop (che sta per ottenere il suo riconoscimento definitivo da Bruxelles, come ci dice Giuseppe Barile, presidente del Consorzio di tutela) è irripetibile per il concorso di diversi elementi non esportabili quali le quattro varietà di frumento che vanno molite insieme, l’acqua (già a Matera, ad appena 19 km, è diversa), il lievito inacidito e la grande professionalità dei panificatori locali. Ma con la tecnologia si può realizzare un prodotto di semola rimacinata di grano duro di tutto rispetto. «C’è ancora molto da fare per far crescere questo settore - sostiene Saponaro - ad esempio potenziare le attività produttive della cerealicoltura attraverso la ricerca scientifica, che nel settore cerealicolo è la più antica, con miglioramenti genetici o varietali». Anche il settore molitorio può svilupparsi ulteriormente guardando all’Europa, perché il mercato italiano è ormai saturo, come sostiene il cav. Antonio Moramarco, titolare del più grande impianto di molini della zona, che sta costruendo un impianto in Venezuela. L’Italmopa, associazione di molini e pastifici, in collaborazione con l’Ice, l’istituto per il commercio estero, con le associazioni di categoria potrebbe promuovere conferenze tecniche nei paesi europei per illustrare le caratteristiche di produzione e la possibilità di realizzare questo prodotto ovunque. Perfino grandi aziende come la Barilla che fino a ieri ignoravano la semola di grano duro, oggi la utilizzano per fare i biscotti. Del resto la resa del rimacinato di grano duro è del 30-40% , maggiore del 15% di quello tenero, il che vuol dire che da ogni quintale 30-40 chili sono gratis: un vantaggio notevole sul piano della commercializzazione e dell’economia dei costi. Attraverso progetti di import-export è possibile abbattere i costi di trasporto ancora elevati, cercando soluzioni alternative al trasporto su gomma, come possono essere la ferrovia e il mare, soprattutto perché la materia prima ha tempi lunghi di conservazione, che possono arrivare anche a 160 giorni. Per il marketing un ruolo importante oltre all’Ice, potrebbero svolgere le Camere di commercio e soprattutto la Regione, con i nuovi compiti istituzionali che le sono stati affidati. Manca la mentalità consortile Ma, come in tanta altre aree della Puglia, manca una mentalità consortile, che sarebbe il volano di uno sviluppo rapido ed efficiente, «il Comune - propone Saponaro - potrebbe svolgere un ruolo di concertazione permanente fra i vari produttori». «Per il trasporto - ci dice Barile - siamo in trattativa con una compagnia aerea e forse fra un paio di mesi saremo in grado di far arrivare il nostro pane su tutti i mercati europei». Altamura, però, non è riuscita ancora a valorizzare fino in fondo il prodotto locale e gestire in loco tutta la filiera. «Come mai la capitale della pasta è Parma - dice Mino Casiello, altamurano doc e direttore dell’Inea, l’istituto di economia agraria di Bari - quando le capitali del grano sono Altamura e Foggia. Perché non siamo riusciti a trasformare la semola prima che vada via? Ecco uno delle mancate occasioni di sviluppo del settore». L’industria delle carni L’agroalimentare di Altamura rappresenta un esempio di sviluppo compatibile con l’ambiente di cui oggi si parla tanto e accanto al pane cresce l’industria delle carni che ha la sua punta più elevata nell’agnello, un piatto forte della gastronomia altamurana, con i «gnumuridde» involtini di pecora alla brace e le salsicce a punta di coltello. La materia prima è quella degli allevamenti della Murgia (sono oltre 200). L’antica transumanza è ormai un ricordo dei musei della civiltà contadina, ma anche i pascoli vanno scomparendo: l’alimentazione del bestiame avviene direttamente nelle masserie. Ma il problema resta sempre quello dell’acqua: trivellare i pozzi costa e uno sfruttamento eccessivo della falda può accelerare il processo di desertificazione. L’agricoltura altamurana resta povera (soprattutto se si confronta ad esempio con la produzione dell’uva), gli investimenti vengono fatti altrove (si acquistano ettari di terreno in tutta la Puglia, per trasformarli a grano) perché i costi sono rimasti costanti, mentre è diminuito il valore della produzione. In sostanza, la tendenza è quella di ridurre il valore della produzione e incrementare quella dell’aiuto comunitario. «Da un ettaro di terreno si possono produrre 20-20 quintali di grano al prezzo di 35-39mila lire a quintale e su un valore di produzione di un milione, si è arrivati oggi a un’integrazione europea di 700-800mila lire, mentre i tendoni di uva rendono 300-400mila lire ad ettaro e il prodotto viene venduto a 700-1.200 lire al chilo, con un ricavo anche di 400 milioni ad ettaro: ecco perché la nostra resta un’agricoltura povera, conclude Casiello». Altamura può vantare anche la produzione del fungo cardoncello, dei formaggi, dei dolci e del rinomato digestivo «Padre Peppe», infuso di noci, la cui ricetta è attribuita a un frate del ’600. Il tringolo del salotto In questa città di 64mila abitanti a 40 chilometri da Bari e a 19 da Matera, al confine tra Puglia e Basilicata, è presente un benessere diffuso, con un indice di consumi elevato possibile grazie a un riuscito connubio tra agricoltura e industria, per la capacità dei suoi cittadini di riconvertirsi e cogliere le occasioni offerte dal mercato. Nasce così, quasi per caso, l’industria, soprattutto quella del salotto, divenuta ormai un «polo» con i Comuni di Matera e Santeramo con una produzione che rappresenta oltre il 60% di quella nazionale e che aspira a trasformarsi in distretto, cioè un modello di impresa che, utilizzando una rete sistemica di relazioni che mettono in corrispondenza il patrimonio di risorse materiali (ma anche immateriali di cui il territorio è ricco) sia in grado di ottimizzare i processi di sviluppo economico, sociale e culturale della comunità alimentando virtuosamente la rete stessa. Il «triangolo del salotto», nasce dal successo del fenomeno Natuzzi, dalla quale si staccano progressivamente operai, quadri, dirigenti che avviano attività produttive in proprio. In parte questi spin-off (distacchi) sono incentivati dalla stessa impresa, che progressivamente si crea un sistema di subfornitori, in parte da iniziative indipendenti, che danno vita a imprese autonome, in concorrenza con la stessa Natuzzi. «Altamura è il centro del Triangolo del salotto - scrive Gianfranco Viesti - dove ancora oggi c’è il maggior numero di imprese finali: in parte sono subfornitrici (in contolavorazione) delle maggiori in parte operano in conto proprio. L’associazione delle piccole e medi imprese della Murgia (Assopim) stima che ad Altamura vi siano una settantina di «contilavorazione» e una trentina di salottifici, alcuni dei quali operanti sia conto proprio che conto terzi». Il boom del salotto è attestato anche dai dati relativi al numero degli addetti: appena 49 nel 1971 e ben 1.486 nel ’96 per un fatturato che supera i 2.000 miliardi. Tra i contoterzisti il maggiore è Marinelli, che già lavorava per Natuzzi, e che oggi ha raggiunto un fatturato di 38 miliardi con 140 dipendenti interni e una vasta rete di subfornitori. Importanti sono anche la Piquattro (160 dipendenti) e la Max Divani, prima azienda a spostarsi fuori del centro urbano con i fratelli Ferri e che dal 1986 opera sui mercati esteri (Olanda, Giappone e Nord America). Tra quelle di medie dimensioni vi è la Musa, che recentemente ha ampliato il proprio stabilimento. Ma nel paese del pane, vi sono anche due società del gruppo brianzolo Chateau D’Ax che controllano una trentina di laboratori esterni e una società realizzata da un immigrato marocchino, la Kamal Salotti, che dopo un’esperienza proprio alla Chateau ha avviato un’azienda con 100 dipendenti. Infine da segnalare anche la Soft Line, stabilimento collegato con l’azienda madre di Modugno (di Scagliusi, Zambetta e Romano), che è la seconda per dimensioni nell’area, dopo Natuzzi e che ha ricevuto la segnalazione di Mediobanca, come una delle migliori aziende medie italiane. Crescita spontanea e disordinata C’è lavoro nero ad Altamura? «Ufficialmente no - dice Giovanni Massaro, locale segretario della Cgil - ma è possibile che ci sia. Sicuramente ci sono lavoratori in pensione usciti da altre aziende che si sono inseriti nel settore del salotto. Ci sono, poi, operai qualificati superpagati da una parte e operai contoterzisti con un inquadramento inferiore a quello dei contratti di lavoro dall’altra. Ma una realtà sintomatica è l’assenza quasi totale del sindacato nelle aziende, perché non gradita ai datori di lavoro i quali talvolta ricattano i lavoratori con la minaccia della perdita del posto. E manca anche una cultura sindacale nella classe operaia di Altamura». Come manca una cultura d’impresa: molti ex operai divenuti imprenditori non hanno una visione complessiva della realtà economica. Spesso invece di reinvestire gli utili nell’azienda, li destinano ai consumi: la macchina sportiva, abbigliamenti firmati, ville ecc. C’è questa voglia di ostentare una ricchezza conquistata, proprio da parte di chi proviene da settori economici più emarginati. «Lo sviluppo spontaneo è stato un bene per la nostra città - aggiunge Massaro - ma ora deve essere legato al territorio, all’ambiente e soprattutto deve garantire maggiore sicurezza ai lavoratori: aumentano gli infortuni e le malattie professionali». Questo sviluppo spontaneo, imprevisto, ma anche disordinato ha posto il problema dell’individuazione di un’area di insediamento industriale, che permetta l’espansione delle aziende. E sull’individuazione di quest’area la città si è spaccata in due: da una parte gli imprenditori che grazie alla legge regionale 34/94 che permette, in assenza di aree disponibili, di costruire in variante agli strumenti urbanistici, per consentire l’acquisizione di aree a basso costo, si sono insediati un po’ dovunque; dall’altra gli attuali amministratori di centro-sinistra che, ribaltando una decisione dei loro predecessori di centro-destra, puntano a realizzare un’area industriale prevista dal Piano regolatore nella zona di Jesce (dove si è già insediato Natuzzi) e una zona artigianale in via Gravina, per ottimizzare i servizi ed evitare il saccheggio del territorio. Gli imprenditori avevano sottoscritto 73 accordi di programma e alcune aziende avevano già edificato (anche intorno all’area archeologica dei dinosauri), per cui è scattato il sequestro della magistratura e il temporaneo blocco dell’attività. Ci sono, poi, gli ambientalisti che puntano alla realizzazione del Parco nazionale dell’Alta Murgia, che gli insediamenti industriali comprometterebbero. Gli industriali che hanno già acquistato i suoli non ci stanno e minacciano di andare a insediarsi in altre aree industriali baresi o lucane. In attesa che questo conflitto trovi una soluzione, il settore dell’imbottito è in movimento e una nuova concorrenza minaccia il triangolo del salotto, come ricorda lo stesso Viesti. Grazie all’iniziativa di un imprenditore di Forlì, aiutato da un tecnico altamurano, è stata avviata una fabbrica di salotti in Cina, interessata al mercato americano. Ma i bassi costi del lavoro e un costo più contenuto dei componenti può creare un mix concorrenziale pericoloso per i produttori locali: la principale impresa produttrice in Cina, la De Coro, ha già raggiunto un fatturato di 160 miliardi. Ecco perché si punta al riconoscimento di «distretto industriale». Governare lo sviluppo E l’amministrazione comunale cerca di governare questo sviluppo. «C’è uno sforzo da parte nostra - afferma il sindaco Rachele Popolizio, un avvocato dei Popolari che guida una giunta di centro-sinistra - per favorire la diversificazione produttiva evitando di concentrarla tutta nei salotti, incentivando gli investimenti nel settore agroindustriale e promuovendo i prodotti tipici della nostra terra (e la Dop del pane, va in questo senso). Anche la scelta del parco dell’Alta Murgia è un investimento nella qualità della vita e del territorio». Cosa chiedete alla Regione? «Una disponibilità ad accogliere proposte alternative agli accordi di programma su tutte le direttrici dello sviluppo economico con investimenti in altre direzioni e con minore impatto ambientale. L’ambiente, lo spazio e l’aria della Murgia, sono un grande patrimonio da valorizzare. Ecco perché servono aziende corrispondenti alla natura del territorio, la Murgia può divenire un grande polmone verde e area di produzione alimentare di qualità. Di qui la necessità di completare il depuratore e chiedere all’Acquedotto pugliese una maggiore disponibilità idrica a fini irrigui. Ma è soprattutto sul turismo che occorre puntare, per sviluppare maggiormente un’area ancora inesplorata». Il settore commerciale può ancora espandersi, del resto l’attuale situazione di benessere permette di essere ottimisti, come sostengono l’assessore alle attività produttive Giuseppe Creanza e Nicola Caggiano della Confesercenti. «Occorre cogliere tutte le opportunità dei finanziamenti statali e europei - aggiunge Creanza - per realizzare una serie di infrastrutture: oggi i collegamenti sono difficili e angusti, andrebbero potenziati quelli con Bari e Matera. «Il cafone all’inferno» di Tommaso Fiore è ora in paradiso, è diventato un cittadino benestante, ma non ha dimenticato le sue radici che si perdono in quel passato in cui ha faticosamente «rubato terra alle pietre», come direbbe Raffaele Nigro e «il mondo dei vinti» di Nuto Revelli oggi riscattatosi dalla maledizione del destino, ha l’occasione di scegliere la strada da percorrere: crescere armonicamente con quella terra impervia o abbandonarsi a un lusso che può rivelarsi effimero. Un popolo di formiche non può diventare un popolo di cicale: è scritto nella sua storia e nel suo carattere. La Gazzetta del Mezzogiorno - inchiesta - 7.3.2002