A guastare la festa della ripresa dei Paesi occidentali e soprattutto degli Stati Uniti abituati ad un'euforica crescita ininterrotta, che dura già da circa 8 anni, è arrivato un signore in nero. Il dio dell'energia necessaria a far girare il mondo: il petrolio. Tanto amato per le sue capacità energetiche e tanto odiato quando il suo prezzo lievita alle stelle come sta avvenendo da alcuni mesi a questa parte. E così tra i protagonisti dell'economia mondiale si è inserito di prepotenza anche l'Opec, l'organizzazione dei Paesi produttori dell'oro nero, con i quali oggi occorre fare i conti.
Se decidono di stringere i rubinetti sono guai per i prezzi; se aumentano la produzione, il costo del petrolio cala e la macchina economica gira più rapidamente, senza rischio di tentazione da parte di quel demonio chiamato inflazione.
E' stato un brusco risveglio per le economie occidentali quello di circa un anno fa, quando si sono accorte che il prezzo del petrolio ha cominciato a salire abbandonando la comoda soglia dei 10 dollari a barile, per arrivare agli attuali 33-34 dollari (senza dimenticare che sono stati toccati anche i 37-38 dollari). Se si considera che ogni rialzo di 10 dollari equivale a mezzo punto di inflazione in più e allo 0,25% in meno di crescita del Pil (prodotto interno lordo), secondo i calcoli dell'Ocse, si può ben capire come l'impennata dei prezzi rappresenti un pericolo per l'Occidente.
Del resto in meno di un anno, facendo la media dei Paesi sviluppati, l'inflazione è raddoppiata, passando dall'1,1% al 2% e oltre, sperando che la media del prezzo resti sui 33 dollari a barile e non si spinga verso i 40 dollari, un tetto che provocherebbe un'inevitabile recessione indotta dal rialzo dei tassi monetari sia negli Stati Uniti sia in Europa, dove ad aggravare la situazione c'è la debolezza dell'euro, precipitato più volte ai livelli minimi.
Come si spiegano questi rialzi continui, che hanno portato il prezzo del barile ai massimi degli ultimi 10 anni e in qualche caso, anche a rincari in un solo mese del 25%?
L'Opec ha deciso di ridurre la quantità di oro nero estratta, per far salire il prezzo, dopo che alla fine del 1988 era sceso a livelli bassissimi (ai minimi storici perfino sotto il livello degli anni '60 prima dello choc petrolifero), per la caduta della domanda provocata dalla crisi asiatica, provocando anche difficoltà finanziarie nei paesi produttori e in particolare in Russia. I sauditi, ad esempio, si sono ritrovati con un debito pari al 100% del Pil. In questa situazione, l'accordo per la riduzione della produzione (sollecitato anche dai grandi gruppi petroliferi, le sette sorelle di un tempo, che vedevano ridursi in maniera preoccupante i loro margini), è diventato una strada obbligata.
Forse anche gli Stati Uniti, forti di una consistente riserva di petrolio, hanno favorito questa scelta per aiutare le economie di Paesi produttori in difficoltà come Russia, Venezuela, Messico ecc.
Questa tendenza al rialzo è stata sottostimata dagli analisti occidentali, che ritenevano il fenomeno solo temporaneo, sicuri che i paesi dell'Opec avrebbero finito, come sempre, per dividersi e litigare fra loro, col risultato di un aumento della produzione da parte di alcuni, fino a trascinare tutti dietro.
Ma nella corsa alla new economy, i Paesi produttori sono rimasti indietro e non sono disposti a fare da spettatori della nuova ricchezza, soprattutto americana. Così stanno mettendo in atto un'azione soprattutto politica, anzi geopolitica, anche se l'Opec non è più la potente organizzazione degli anni '70 in grado di stringere il laccio al collo degli occidentali per affermare il proprio nazionalismo. Né lo stesso Saddam fa paura più di tanto. Ma i produttori dell'oro nero vogliono partecipare la banchetto. Soprattutto perché - occorre dirlo - la domanda di petrolio è aumentata, fino al punto che lo scarto tra quello prodotto e quello consumato è arrivato a quasi tre barili al giorno. E quando l'Occidente ha rimproverato i paesi Opec per i continui rialzi, questi hanno risposto sostenendo che la responsabilità del caro-prezzo è in gran parte dovuta alle tasse imposte dai Paesi importatori sui prodotti petroliferi: queste gonfierebbero i prezzi a dismisura, come avviene in particolare in Italia. Una tesi ribadita anche nel documento finale del recente vertice dei produttori. Il presidente dell'Opec, il venezuelano Alì Rodriguez ha sottolineato che l'impennata è dovuta soprattutto alla speculazione, alle tasse elevate e ai problemi legati alla raffinazione.
Ma i responsabili del caro-benzina, e di un inverno che si annuncia più freddo del solito, sono anche altri, poco citati e poco conosciuti fuori della cerchia degli addetti ai lavori. I "cattivi" si chiamano brokers e traders. I traders, che in Italia si chiamano "noleggiatori" e i brokers, che da noi si definiscono "mediatori marittimi" sono capaci di influenzare il prezzo del greggio. I noli, dopo che molte carrette del mare sono state messe in pensione, nel giro di un anno sono quasi triplicati: ci sono poche navi cisterne in giro. I brokers lavorano a percentuale sul valore del nolo: se l'armatore riesce a spuntare un buon contratto al traders o alla compagnia petrolifera, la tradizionale percentuale dell'1,25% può lievitare ed è un affare, tenuto conto che i mediatori italiani spendono in lire, ma incassano in dollari. In questo gioco speculativo c'è un fuoriclasse, l'americano Marc Rich, 62 anni, definito il "Maradona dei traders", vive e lavora in Svizzera ed è in testa alla lista nera del fisco degli Usa, che negli anni '80 avevano messo anche una taglia di 500mila dollari su di lui, per colossali evasioni di tasse. E' lui che dirige molti traffici, forte di una "carriera di tutto rispetto": ha realizzato grandi affari con l'ex dittatore nigeriano Sani Abacha, il generale che aveva messo insieme una mastodontica fortuna personale in Svizzera a colpi di tangenti; è stato il regista dell'aggiramento dell'embargo petrolifero al Sudafrica nel periodo dell'apartheid; ha comprato petrolio a prezzo scontato per l'Iran durante la crisi degli ostaggi americani; ha dato una mano alla Russia post-comunista. E' lui, insomma, uno degli autori del grande affare del caro-petrolio attraverso lo "squeeze", un termine di gergo che identifica la cosiddetta "spemitura del mercato".
E noi, poveri automobilisti, continuiamo a bestemmiare il dio petrolio.
Felice de Sanctis - La Gazzetta del Mezzogiorno