dal nostro inviato
SANTERAMO - L’industria come missione. Può sembrare l’uovo di Colombo una ricetta facile, da consigliare, per una libera professione, ma difficilissima da realizzare in un’attività industriale, con una concorrenza agguerrita che giustificherebbe più sistemi senza scrupoli, che una logica sociale. Ma il segreto del successo di Pasquale Natuzzi (foto), 53 anni, tre figli, imperatore incontrastato del divano in pelle sta proprio in una filosofia quasi orientale. Dell’Oriente Natuzzi deve avere una particolare simpatia: lo ricorda il suo stesso aspetto tra Yul Brinner e un guru tibetano, il suo modo di vestire senza cravatta con giacche prive di collo quasi di foggia coreana, camicie e maglioncini multicolori, oppure «tute» in pelle, il suo linguaggio tranquillo ma deciso che nasconde la sicurezza del manager, del self made man. E quale missione è più necessaria al Sud dove la crisi economica si fa sentire in mo do più pesante? Dare lavoro. Così, mentre quasi tutti gli imprenditori licenziano, ricorrono a prepensionamenti e mobilità del personale per ridurre i costi, Natuzzi leader mondiale del divani in pelle, assume, da sempre, quasi un dipendente al giorno. Ora ne cerca 800, alla sua maniera molto yankee, con spot televisivi sulle emittenti locali, senza ricorrere a un’agenzia specializzata. CRESCERE INSIEME Miracolo a Santeramo? Forse. Guardiamo più da vicino il «pianeta Natuzzi», composto da quasi 2mila persone che vivono e lavorano con l’obiettivo di «crescere insieme» e che rappresentano il cuore di un'azienda il cui fatturato in quattro anni si è quintuplicato 53 a 250 miliardi e la corsa non si è fermata: 300 miliardi nel ‘90, quasi 335 nel ‘92, 431 nel '93, con un incremento del 38,3 per cento. La Natuzzi Spa, che si accinge a festeggiare il suo 35 compleanno, nel ‘72 aveva appena tre dipendenti poi è «esplosa» come fenomeno imprenditoriale nella seconda metà degli anni Settanta, con la scoperta del mercato americano (dove i divani costavano 3mila dollari e l’azienda di Santeramo li propose a meno di un quarto: 700 dollari. E fu subito business). Oggi detiene in Usa una quota del 20% in ben 97 Paesi (fra i quali l’Australia, dove ha registrato un incremento del fatturato del 327% e il Giappone con il 224,5%) esporta i suoi modelli (ne viene creato uno diverso ogni quattro giorni, con una pianificazione adeguata alle esigenze dei clienti). Il 13 maggio del’93 è arrivato il risultato più significativo: la quotazione a Wall Street, la Borsa di New York, dove il titolo è passato dalle iniziali l5mila alle attuali 30mila lire, un incremento del 67%, un record. SELF MADE MAN Ma 1’artefice di questo miracolo è proprio Pasquale Natuzzi, che rifugge dal protagonismo tipico di molti industriali, concede rare interviste nella quali parla poco di sé: preferisce parlare dei suoi dipendenti, della sua «missione», della «funzione sociale dell’impresa», quella di dare lavoro e far crescere il Sud. Cerchiamo di capire attraverso un colloquio con lui, ottenuto dopo vari tentativi, superando non poche resistenze e diffidenze («il presidente è molto impegnato», ci ha ripetuto spesso Anna Paola Lamanuzzi, responsabile delle relazioni esterne) il motivo di questo successo sia sul mercato, sia in azienda. «La Natuzzi – dice - è una storia di persone, una storia di lavoro, di caparbia volontà, di creatività e di capacità organizzativa. Vi è una forte coesione fra società e dipendenti». In realtà la forte motivazione, l’assenteismo quasi inesistente, nessun problema sindacale, né scioperi, solo l’orgoglio di appartenere al gruppo fanno dei dipendenti un modello giapponese difficilmente riscontrabile nel nostro Paese. L’obiettivo della qualità totale è raggiunto anche attraverso un rapporto diretto e quindi più umano del presidente con il personale dell’azienda. Sposando tecniche di marketing americane e metodi giapponesi, Pasquale Natuzzi cura in modo particolare la comunicazione, con una grande convention annuale, con la partecipazione di tutti i dipendenti, in cui si tirano le somme di un anno di lavoro e anche attraverso il giornale aziendale «Comunicare insieme», col quale oltre a mettere in evidenza successi e anche problemi del gruppo, si dà spazio alla voce del singolo lavoratore, al quale risponde il presidente. LA CULTURA DEL LAVORO Un’azienda, insomma, all’americana col culto dell'Italian dream, del sogno italiano nel mito del self made man, l’uomo che si è fatto da sé, sull’esempio di Pasquale Natuzzi che, con la sola licenza elementare, è riuscito a creare una grossa realtà economica. Tutti dirigenti del gruppo sono partiti dal basso e si sono formati in azienda: uno stimolo anche per i nuovi assunti (la media complessiva è sui 30 anni) a crescere sulla base delle proprie capacità. Il miracolo sta forse proprio in questo, prima ancora che nei fattori economici. «Il nostro obiettivo è anche quello di creare una cultura del lavoro - dice il presidente -; io ho imparato sul campo, ma non ci si può affidare sempre alle capacità individuali, occorre sviluppare tale cultura. Un’azienda non può essere gestita da un uomo solo, occorre preparare i propri collaboratori, che a loro volta prepareranno i loro colleghi: una preparazione a cascata, comunicando in termini chiari con tutta la popolazione del gruppo, affinché ognuno faccia del proprio lavoro una missione. E’ questa la nostra filosofia aziendale». Come si fa ad assumere personale, quando gli altri espellono manodopera? Per evitare l’alto costo del lavoro, soprattutto in rapporto con la concorrenza asiatica o dell’est Europa i suoi colleghi imprenditori cercano di aumentare le tecnologie e ridurre il personale? La sua azienda come riesce ad essere competitiva, quando un operaio in Malesia costa 7mila lire al giorno contro le 130mila lire italiane? «L’assunzione di 800 persone è la risposta. L’aiuto delle tecnologie è importante, ma non determinante perché il 90% di un manufatto è realizzato a mano. Poi occorre dire che l'incidenza della manodopera nel nostro settore è intorno al 15%. Nei Paesi concorrenti (Estermo Oriente, Cina, Malesia, Thailandia ecc.) l’incidenza del costo del lavoro è del 3% e questo può creare problemi". «Ma un’azienda - dice ancora Natuzzi - non è fatta solo di costo del lavoro, ci sono costi finanziari, l'efficienza aziendale, la creatività, la capacità di fare marketing nella maniera giusta, la possibilità di acquistare a prezzi più contenuti la materia prima. In quest’ultimo fattore sta un altro segreto del nostro successo. Dieci anni fa abbiamo intuito che non potevamo subire il ricatto di centinaia di commercianti che cambiavano ogni giorno il prezzo della pelle. Valutato in un 30% tale costo sul prodotto finale, abbiamo deciso di fare da soli acquistando una conceria, poi attivandone un’altra direttamente in Argentina e in Sudamerica, prendendo contatti personali con gli allevatori. IL SEGRETO DEL SUCCESSO Oggi siamo l’unica azienda produttrice di divani in pelle che, in pratica, produce anche la materia prima, con grande vantaggio di costi. Stesso discorso per il poliuretano, la gomma per le imbottiture: la produciamo direttamente, la trasformiamo e siamo così indipendenti anche in questo settore. In definitiva, noi produciamo materiali e semilavorati che rappresentano il 92% del totale delle materie prime. Questo ci ha consentito di avviare un sistema just in time, che ci permette di evitare scorte di magazzino. Siamo in grado, cioè, di pianificare la produzione in base alle richieste dei clienti, evitando il rischio delle scorte e delle rimanenze di magazzino. E questo in tutto il mondo. Il cliente va dal negozio di Tokyo sceglie il modello, ma se desidera un colore diverso, fa l’ordine con la variazione desiderata noi siamo in grado di soddisfare le sue richieste». Un’organizzazione perfetta, che ha del geniale anche dal punto di vista economico. Tutto questo avviene nel Sud, in Puglia non in Brianza, in Germania o in Giappone. Sulla Murgia barese in uno stabilimento circondato dagli ulivi vengono prodotte 5.300 «sedute» (i posti dei divani) al giorno con un incredibile rapporto prodotto-prezzo-qualità, al quale si aggiunge un servizio di assistenza dopo vendita nel caso in cui il cliente non dovesse essere soddisfatto. Tutto avviene in tempo reale grazie a una serie di computer che da Santeramo sono collegati con tutto il mondo. La Natuzzi ha scelto la strada del mercato estero perché la distribuzione del mobile in Italia è ancora ferma a 40 anni fa: da quando mio padre vendeva mobili non è cambiato nulla - spiega Natuzzi - esistono 36mila licenze di negozianti di mobili, con un rapporto rispetto agli altri Paesi che è almeno di 1 a 5. Ecco perché abbiamo creato la società “Divani & Divani”, che col sistema del franchising, ci permette di superare lutti gli ostacoli della distribuzione. E i risultati ci stanno dando ragione: nel ‘93 le vendite sono cresciute del 60% nel nostro Paese». ALLA CONQUISTA DELL’AMERICA Perché quotare la società al New York Stock Exchange e non alla Borsa di Milano? «Ma quella di Milano è una Borsa?, chiede ironicamente Natuzzi. E’ solo una... borsa della spesa. Scherzi a parte, gli Stati Uniti hanno rappresentato fino a qualche anno fa il 90% del nostro fatturato. Il nostro marchio era conosciuto meglio in America che in Europa. Dalla quotazione a Wall Street abbiamo avuto un ritorno di immagine notevole, che a volerlo quantificare in pubblicità ci sarebbe costato intorno ai 30 miliardi. Poi il titolo è cresciuto e ci ha permesso di avere denaro fresco senza ricorrere ai tassi proibitivi delle banche». Lei crede nella ripresa economica? Da un imprenditore di successo come lei (è entrato recentemente anche nel consiglio di amministrazione della Sipra, la concessionaria di pubblicità della Rai: «quello è un genio, va bene dovunque lo metti», è stato il commento alla notizia) quale consiglio può venire per rilanciare la nostra regione? «Non vedo una rapida ripresa, soprattutto fino a quando non si farà chiarezza a livello politico. L’economia pugliese invece avrebbe bisogno di tanti piccoli imprenditori, della crescita dell’industria manifatturiera accanto all'agricoltura intesa in senso moderno con industrie di trasformazione la capacità di vendere direttamente e di esportare i prodotti. Accanto a ciò è il turismo che va incentivato. Ma qui vedo poche iniziative. E, poi, mi consenta una critica. Voi dell’informazione dovreste essere più attenti alla realtà locale, dedicare più spazio al territorio, per contribuire alla sua crescita. Come cambiare il Sud? Anche cambiando l’informazione. Avrà il coraggio di scriverlo?». La Gazzetta del Mezzogiorno – 2.4.1994