FELICE DE SANCTIS
«Si tratta solo di una mela marcia o è il sintomo di maggiori problemi nell’economia e nel sistema bancario italiano?». E’ questa la domanda che si pongono, sempre più spesso, all’estero, dopo il crac Ferruzzi. E l’autorevole Wall Street Journal, di New York, aggiunge: «aumentano all’estero i dubbi sulla finanza italiana». Il londinese Financial Times è più lapidario: «L’Azienda Italia scivola nel fango degli scandali». L’immagine dell’Italia e del «made in Italy» ne esce a pezzi. Senza risalire agli scandali Sindona e Calvi, basta pensare ai recenti naufragi della Federconsorzi e a quello dell’Efim, per comprendere come sia difficile accreditare all’estero un’affidabilità finanziaria del nostro Paese. Da una recente indagine pubblicata a Londra emerge come gli uomini d’affari inglesi, francesi e tedeschi considerino le società italiane meno rispettose delle leggi e dell’etica nei confronti delle loro controparti straniere. Senza assolutizzare questo giudizio (anche i nostri partner europei hanno parecchio da farsi perdonare in quanto a spregiudicatezza finanziaria), occorre però ammettere che noi facciamo di tutto per «meravigliare» l’Europa. Sia col tentativo di grandi scalate: la Sgb (De Benedetti), la Continental (Pirelli) e altre, con i nostri «condottieri» sempre in primo piano. Sia con rovinosi crolli: dall’Ambrosiano alla Ferfin. E così i nostri manager diventano, nell’opinione europea, i meno affidati e attendibili. Siamo arrivati al punto di vergognarci del «made in Italy», un marchio che è stato per anni garanzia di qualità, se perfino Benetton, che di quel marchio ha beneficiato, annuncia di non voler più esportarlo, preferendo il «made in Europe». Cosa sta succedendo? Perché le avventurose sortite finanziarie di pochi spregiudicati rischiano di compromettere la realtà di una maggioranza di protagonisti dell’economia italiana che ha lavorato e lavora onestamente? Certo il capitalismo, sul quale in questi giorni si è aperto un grande dibattito, non è materia per francescani. Ma è anche vero che nel nostro Paese non è mai esistita un’etica degli affari: è stata solo materia di interminabili dibattiti. Da noi, alla trasparenza dei mercati, si preferisce la strada delle amicizie politiche, dei canali particolari, dei gruppi di affari che sfruttano il denaro pubblico a fini personali. Ecco perché si chiede da più parti un efficace sistema di controlli (alla cui testa non ci siano i soliti amici dei politici, ma personaggi seri e soprattutto competenti), che tuteli il piccolo risparmiatore, ma soprattutto l’immagine del nostro Paese, vitale in un’economia globale. Sarebbe anche ora che i responsabili dei dissesti finanziari pagassero personalmente e con i loro patrimoni: un buon esempio è quello della Montedison che ha chiamato a rispondere i propri amministratori. L’uomo della strada oggi si chiede: perché le sanzioni valgono solo per i semplici cittadini? Chi sbaglia una virgola nel 740 paga multe salate, mentre chi fa perdere miliardi allo Stato e ai piccoli azionisti di una grande società non risponde mai. Tangentopoli ha fatto venir meno la fiducia nel sistema politico, gli scandali tipo Ferruzzi (è solo l’inizio?) rischiano di farla cadere anche nel sistema finanziario. Se ciò avvenisse come si potrebbero portare in porto le tanto auspicate e necessarie privatizzazioni degli enti pubblici? Chi investirebbe in società che potrebbero naufragare, trascinando con sé soprattutto i piccoli azionisti? Anche gli investitori esteri non metterebbero un dollaro in queste società. E ciò costringerebbe il governo a inasprire la politica economica (con nuove tasse e altri tagli allo Stato sociale) per far fronte al debito pubblico. Ecco perché alla riforma del sistema politico, è urgente affiancare quella del sistema finanziario, per offrire tranquillità ai risparmiatori. Ma è anche necessario diventare adulti. Abbiamo scelto il capitalismo, dobbiamo accettarne le regole. Soprattutto quelle più dolorose che comportano il rischio d’ impresa. In un capitalismo moderno la ricchezza non può essere concentrata nelle mani di poche grandi famiglie o di molte società pubbliche. Ha ragione il sociologo De Rita quando dice che abbiamo inventato l’economia mista, ma non l’abbiamo saputa gestire: non si può abbinare la regola del rischio alla sicurezza del posto, come hanno fatto molti imprenditori privati, che in nome dei posti di lavoro da salvare, si sono abbeverati alla mammella statale. E poi si parla di assistenzialismo al Sud. Da come si risolverà la vicenda Ferruzzi dipenderà la credibilità del nostro sistema finanziario all’estero. Ma da come il governo saprà gestire la difficile congiuntura (senza ricadere nell’errore del passato di statalizzare le perdite a danno dei contribuenti e delle finanze pubbliche), dipenderà il nostro futuro, e soprattutto quello dei nostri figli.
La Gazzetta del Mezzogiorno - 1ª pagina - 18.8.1993